04 Feb “Una storia tutta per sé: raccontare se stessi per essere più felici”
“Una storia tutta per sé: raccontare se stessi per essere più felici”
di Alessandra Minervini
(Articolo originariamente pubblicato da Repubblica Bari, 28 gennaio 2021)
“Scrivere è cercare la calma, e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere. Chi scrive e legge realmente, cioè solo per sé, rientra a casa; sta bene. Chi non scrive o non legge mai, o solo su comando – per ragioni pratiche – è sempre fuori casa, anche se ne ha molte. È un povero, e rende la vita più povera.”
Per cominciare a raccontare la mia storia, devo presentarvi Anna Maria Ortese. Quando ho delineato la mia Casa di Scrittura, in particolare l’approccio biografico della maggior parte dei suoi percorsi, ho subito pensato a lei. La considero la scrittrice a cui devo un po’ della mia audacia. Quella di tornare a Bari, ormai dieci anni fa, e scrivere. Ma non solo, non paga del mio desiderio ho alzato la posta e ho scelto di far scrivere le persone. Tutte quelle che lo desiderano ma non lo sanno, o lo sanno ma non lo desiderano abbastanza. Ho diffuso un po’ di sana audacia in giro. Se qualcosa posso dire con certezza dei risultati del mio lavoro, è questa cosa qui. La Ortese non è mai stata nota nella sua città, Napoli (vi consiglio il suo libro più autobiografico “Il mare non bagna Napoli”), ma non per questo ha smesso di scriverne anche attraverso la propria vita, trasfigurandola in un altrove che era ciò che considerava la realtà: “il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante.”
Spesso il problema dello scrivere è la riproduzione della realtà, il dover essere fedeli a noi stessi. Niente di più sbagliato. Scrivere di sé è tradire se stessi, farlo senza peccato e senza peccatori. È il contrario di vivere, è osservare con la massima concentrazione ogni dettaglio, rivalutare le strade percorse davvero e intraprenderne altre. Per finta.
Il percorso autobiografico “Una storia tutta per sé”, longevo come la bellezza del nostro mare, pone domande, raschia il fondo del barile, illumina spigoli talmente bui che è impossibile perfino riconoscerli. Eppure fanno parte della nostra vita. Le migliori storie si trovano nelle vostre cantine. Ci avete mai fatto caso? Questo percorso, ideato per i corsi di scrittura ma ora mutuato in una versione video sempre disponibile oppure legato ad un altro percorso di scrittura a me caro, il writing coach, ovvero come allevare e far crescere le storie degli altri, ha come sottotitolo mantra: come raccontare se stessi ed essere felici. Lo so che “felici” può sembrare un azzardo, ma senza azzardo che storie noiose avremmo?
Ve lo confesso. Non mi aspetto nulla dalla scrittura, ho smesso di avere aspettative dalle parole. Se c’è solo una cosa che mi aspetto di dare e poi di ricevere nei miei laboratori è il rinnovamento dell’amore per le storie, per la scelta di guardare le cose in un modo e non in un altro. Jonathan Franzen dice che “la prima cosa che la lettura insegna è come stare soli”. Impossibile dargli torto. Anzi, per rafforzare ulteriormente il pensiero di Franzen, rilancio e dico che la prima cosa che la scrittura insegna è come non stare soli. Scrivere ti fa sentire in compagnia di qualcuno e di qualcosa, anche quando nella tua stanza non c’è nessuno, nemmeno un mobile. La scrittura ci guarda, più di quanto possiamo immaginare. Quando ad Annie Ernaux (la scrittrice vivente più meravigliosamente autobiografica del momento, una signora a cui voglio bene pur non avendola mai conosciuta e questo alimenta la devozione) hanno chiesto dove porta il lettore quando scrive, lei ha risposto che pur essendo narrativa, finzione, letteratura, la sua scrittura porta il lettore nel reale. “Ma i miei strumenti non sono scientifici. I miei strumenti sono la memoria, le parole, tutte le parole possibili, e posso usare quelle che voglio, qualsiasi lessico, ma necessariamente scelgo quello che mi addice.”
Sulla memoria sto lavorando in questo periodo in cui ogni giorno rischia di essere dimenticato perché uguale al precedente. Eppure, ci sono momenti che attraversano questo tempo vuoto. Momenti che comporranno la nostra memoria narrativa: non per ricordare di non dimenticare ma per riprendere un sentimento, un’emozione, un attimo che nutrirà in futuro una storia.
In questi lunghi mesi, la realtà ha superato la fantasia. Eppure esistono buone ragioni per credere che sia un bene abbracciare le nostre storie iventate. Sembra impossibile, in questo momento. Sembra che le risorse interiori si siano esaurite. Se arrivassero gli alieni, domani mattina, siamo sicuri che riusciremmo a sorprenderci? Questi mesi sono stati la disperazione e la speranza, la malattia e la cura, la paura e la guarigione. Più che tanti romanzi sulla pandemia, l’operazione letteraria interessante sarebbe leggere un’unica grande opera a più voci dentro la stessa storia in cui chiedersi: dove è finita la fantasia? La mia, la tua, la nostra?
Chi fa il mio lavoro non deve smettere di chiederselo. Molte persone hanno sentito la necessità, l’obbligo, di dare alle proprie storie di invenzione forma e compiutezza. Più che mai in questo periodo. Queste persone stanno bene, stanno bene con se stesse. Posso chiamarle anche in questo momento mentre scrivo, me lo confermeranno. Hanno scoperto che i loro limiti sono anche silenziose potenzialità, le più preziose per cominciare a raccontare la propria storia.
(Ti interessa raccontare la tua storia? Segui la versione streaming del laboratorio nella scuola di “BenBow”. Oppure visita il sito casadiscrittura.it per scoprire la versione on demand del percorso)
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