08 Nov Se la realtà ci fa orrore, la letteratura di Aldo Nove ci dice perché
Quando, quasi trent’anni fa, Aldo Nove esordiva con la raccolta di racconti “Woobinda” (uscito per Castelvecchi nel ’96 e diventato poi nel ’98, per Einaudi, “Superwoobinda”) «non era ancora diventato obbligatorio mentire». Lo racconta l’autore nella prefazione della recente riedizione del volume per Il Saggiatore. Il mondo letterario di Nove, da Woobinda a Pulsar, sua ultima creatura letteraria che nel titolo rievoca le sorgenti pulsanti che si formano nell’universo quando una stella esplode, sarà al centro dell’incontro tra lo scrittore e poeta con il giornalista di Repubblica, Antonio Di Giacomo. L’occasione è data dalla rassegna Lector in Fabula a Conversano, che li ospiterà lunedì 23 settembre alle 21 (ingresso libero con prenotazione). L’indagine su un presente non più negoziabile partirà proprio dalla produzione letteraria di Nove. È molto probabile che rileggendolo ci si ritrovi a controllare se i racconti, grotteschi e disumani, di oggi siano i medesimi di ieri. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, se “La macchina spaccabaci” non sia tratta da un reel di TiKTok o non sia l’invenzione di un concorrente in un reality. Bene, no. Il passato di Nove è il nostro presente. La realtà che mostrava a fine anni novanta ci inorridiva (piacevolmente) perché sembrava un’esasperazione immaginifica. Lo invidiavamo per l’energia interstellare che fuoriusciva dalle sue storie. Oggi leggendolo continuiamo a inorridirci (ancora più piacevolmente) e continuiamo a invidiarlo, per la pietà fredda con cui guarda il mondo e ci obbliga ad ammettere che non c’è immaginazione letteraria senza una verità esecrabile. Non abbiamo bisogno di immaginarla “La macchina spaccabaci”, “Il bagnoschiuma”, “Vermicino”, “Gesù Cristo”, “Lettera commerciale” e “Pam”, solo per citare alcuni tra i racconti più venerati. Potremmo definirli iconici se non fosse che ogni esistenza narrata da Nove è più simile allo scudiscio di un iconoclasta che a una teca preziosa. L’aggeggio ricavato «dall’asta del mio lampadario, alla sommità della quale ho messo il tritacarne» che separa i baci di chi si ama o la strage famigliare a opera di “brave persone” («Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure&Vegetal») sono situazioni che stentiamo a definire incredibili. Oggi sappiamo tutto, abbiamo visto tutto. Il vero dramma è che ci pesa ammetterlo. Con pudore ed estasi lo fa al nostro posto Aldo Nove nelle pagine di “Pulsar”. Un romanzo che esercita un magnetico pulsare e fuggire dall’esistenza dello scrittore che diventa il filtro per mostrarci cosa succede quando tutto è diventato post (perfino il romanzo è un post romanzo) e la fine di qualcosa ne precede ormai l’inizio. Come si fa a raccontare il presente? Quando perfino le parole si dissolvono nell’impossibilità di sentirsi accolte e nell’invereconda moda di essere un orpello come lo è diventato l’atto di pensare. «Tutti al supposto inizio (alla nascita) sono solamente dei punti di domanda per giocare a toccarne la pelle profumata perché quando sei piccolo profumi e anche la merda profuma di latte inzuppato con gli Oro Saiwa. Sotto il sole del supplizio dello sforzo immane di capire cosa fosse “io”». Pulsar spesso è senza punteggiatura, in barba a qualsiasi impaginazione prefabbricata e lontano dalla dittatura dell’italiano medio, inteso come linguaggio e dunque come punto di vista. Nove ci insegna che la forma è il contenuto e ha senso parlare di avanguardia soltanto quando è l’anticamera poetica di un palazzo devastato.
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