08 Mag Recensione | Giuseppe Quaranta, La sindrome di Ræbenson, Atlantide Edizioni
Atlantide Edizioni 2023, 272 pag, 18 eu
Bisogna abbandonare i vecchi canoni polverosi e affidarsi alla straordinarietà de La sindrome di Ræbenson di Giuseppe Quaranta. Che fosse un’opera attesa lo si intuiva dalla posizione da finalista nell’ultima edizione del Premio Calvino con il titolo, suggestivo quanto quello ufficiale, La malinconia dei coralli. Il protagonista è Antonio Deltito (che l’inconscio legge spesso “Delitto”), uno psichiatra afflitto da una misteriosa malattia. Ne seguiamo le vicende dal punto di vista del narratore, suo caro amico e collega, che ripercorre a ritroso l’accaduto, trent’anni dopo. Deltito ha la sindrome di Ræbenson, un disturbo neurologico sconosciuto, cominciato con amnesie e alterazioni della vista. Una mancanza di messa a fuoco che si rivela poi confluire in una sindrome che conferisce, a chi ne soffre, l’immortalità. Nessuno gli crede quando dice di non ricordare alcune relazioni della sua vita; nessuno è disposto a stargli dietro tranne il narratore che subodora un livello non folle né schizoide, bensì una specie nuova di cuore umano che ha poco in comune con gli uomini, somiglia ai coralli: «Ammesso che una coscienza esista in ogni specie vivente, e con essa tutta l’amarezza del vivere, spetta decisamente a loro il titolo di animali più malinconici del pianeta.» La narrazione saltella da Roma a Venezia fino a raggiungere Taranto, raccontata sì come la sindone pugliese ma anche, e in questo è interessante, attraverso gli interni delle case, traiettorie delle ferite di chi le abita. L’esordio di Quaranta è ambizioso, denso di citazioni che uniscono il lirismo con l’accademia, la caducità della vita con la sua perversa ironia. L’epopea di Deltito riscrive le più varie personalità umane, cariche di universi simbolici che non distinguono troppo la vita dalla finzione. Cosmologie stralunate che fanno pensare ai tipi di Buzzati e D’Arrigo passando per Svevo attraversando Voltaire e Bernhard fino a Nabokov per finire ne Gli Imperdonabili di Cristina Campo. Voci senza definizione che ci ricordano che è nell’extra/ordinario che la letteratura ci mostra chi siamo.
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