13 Mag Recensione | Annalisa Monfreda, Quali soldi fanno la felicità?, Feltrinelli
Feltrinelli, pag 192, 16 eu
Annalisa Monfreda qualche anno fa ha cambiato vita professionale fondando il podcast Rame. Il progetto è un movimento partecipato in cui lavoratori e lavoratrici si confessano su un tema percepito come un tabu: i soldi. Farsi pagare per il dovuto è una pretesa o un diritto? Come si sconfigge la vergogna di non guadagnare abbastanza? Il valore di una persona si misura in base a quanto viene pagata? Monfreda intreccia le conversazioni a nudo sui soldi con tono veritiero e morbido, aggiungendo al racconto collettivo un sunto della propria storia familiare per mostrare come il lessico sui soldi influenzi perfino gli affetti. «Quello che è successo nella mia famiglia è il minuscolo ingranaggio di un meccanismo sociale infinitamente più grande di noi. Man mano che il denaro diventa più potente, man mano che costituisce l’impalcatura su cui si reggono le nostre relazioni (…), man mano che ci determina, insomma, sparisce progressivamente dalle nostre conversazioni.» Quali soldi fanno la felicità? è un racconto che si fa sia specchio riflesso che deformante. Affidandosi alla filosofia e alla storia dell’economia, il libro ha l’audacia di narrare la storia della (nostra) povertà. L’ipotesi di fondo è riscrivere le relazioni quotidiane sui soldi per cancellare un’umiliazione sociale, generata da un senso di colpa che riguarda tutti, in particolare le donne. Nell’anno in cui Gerwig è la prima regista più ricca della storia del cinema con Barbie, scuotono le parole di Louise M. Alcott (uno dei tanti riferimenti colti nel libro) che nel 1868 scriveva: «Sono felice che Piccole donne le sia piaciuto, giacché il libro è stato scritto su commissione e di gran carriera, e ho nutrito moltissimi dubbi sulle possibilità di successo di questo mio primo tentativo con la narrativa per ragazze. Mi dedicherei più che volentieri a questo genere di narrazioni, ma sfortunatamente non pagano bene quanto la “spazzatura”, una considerazione venale, me ne rendo conto, ma che ha il suo peso quando non si scrive ispirati dal genio ma dalla pura necessità.»
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