13 Mag Recensione | Kathy Acker, Sangue e viscere al liceo, Liberaria
Liberaria 2022, 200 pp, 18 eu
Pochi giorni fa la regista Alice Rohrwacher ha commentato la candidatura de “Le pupille” così: «Dedico la nomination all’Oscar alle ‘bambine cattive’ che cattive non sono affatto e che sono in lotta ovunque nel mondo.» Non è stato difficile collegare le sue bambine, diversamente cattive, a Janey, l’enfant terribile di “Sangue e viscere al liceo”. Il romanzo, molto atteso, è stato pubblicato, per la prima volta in Italia, dalla barese Liberaria, con l’impetuosa traduzione di Claudia Durastanti. Un romanzo maestosamente anticonformista, specchio dell’imponente personalità di Kathy Acker: artista e poetessa statunitense, classe ’47, scomparsa a soli 50 anni. Considerata un’icona punk, femminista, avantpop, è stata fortemente influenzata da William Burroughs e i suoi. Se ci si chiede di cosa parla il romanzo, si parte male. Stessa cosa se si vuole definirlo. Che sia un memoir sotto mentite spoglie oppure un’epopea picaresca e postmoderna o una specie di agenda privata in cui poesia, testo e disegnini si incrociano senza apparente continuità, non importa. Bisogna leggerlo come testimonianza lacerata di un’epoca lacerante. Siamo nei primi anni Ottanta, New York è lo scenario della favola nera della giovanissima Janey. Nella prefazione, Tiziana Lo Porto mette in luce gli aspetti anche autobiografici del personaggio: «È adulta ed è bambina. È contro gli uomini ed è con gli uomini. È contro le donne ed è estremamente donna. La sua presenza manipola quello che accade di cui al tempo stesso è vittima.» Assalita dal dolore, dalla solitudine e dell’incapacità di seguire le strade asfissiate dal consumismo performante, Janey è anti-performance: «Sono cresciuta indomita, voglio restare indomita.» È un personaggio che contiene un’ibridazione di archetipi: da quelli delle tragedie greche passando per le eroine shakespeariane, fino a diventare lo specchio ecoico delle voci di dentro di poetesse e scrittrici della precedente generazione (Plath, Sexton). Voci di donne che implorano al mondo di insegnare loro una nuova lingua, quella comune non la capisce più nessuno.
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