13 Mag Recensione | Ilaria Caffio, Bara di seta, Solferino Libri
Solferino Libri 2024, pag 164, 16 eu
Desta contentezza la pubblicazione della tarantina Ilaria Caffio, già tradotta all’estero per le sue poesie, la cui opera prima Bara di seta è edita nella collana I pavoni curata dalla scrittrice Teresa Ciabatti. La storia che Caffio racconta è un ossicino. Due sorelle crescono in simbiosi in una famiglia dove l’amore filiale viene dopo quello coniugale. Quando diventano giovani donne sono costrette a separarsi per sempre. Succede solo questo e succede tutto. Si resta incollati, come invischiati nel dolore della perdita che diventa, per metonimia, un urlo universale «come se il male cominciasse e finisse solo in presenza dei corpi». Anche se conosciamo l’accadimento principale nella prima metà del romanzo, non si smette di seguire questo strappo gentile, che non fa sconti alla verità di una ferita. La voce della narratrice è stropicciata, mai salva. È la voce della sopravvissuta che si rivolge direttamente alla sorella assente, in un’invocazione che diventa un tentativo di trovare una via di scampo alla realtà. Come se si potesse vivere solo nel ricordo. La scrittura, gli appunti mentali, che poi approderanno sulla pagina, sono lo strumento per guardare la perdita da vicino. «Non puoi saperlo, ma c’è un peso sul petto che non mi fa respirare. Mi succede soprattutto quando parlo di te ad alta voce, ma è l’unico metodo che ho per misurarmi con te, entrare nel senso della realtà, trovarle un senso, sentire se il suono delle parole è armonioso è fondamentale.» Le sorelle, entrambe senza nome con echi di beckettiana memoria, ripercorrono l’infanzia, la strepitosa adolescenza e la giovinezza frantumata dalla separazione. La scelta di confondere i piani temporali delle vicende narrate è funzionale al denudare le vite, rendendo scarne le parole in una prosa che si nutre di poesia e di poesia che si fa trama quotidiana. Ilaria Caffio arricchisce il panorama degli esordi di oggi. L’autrice non è mai autocompiaciuta. Ogni parola relega il compiacimento a un danno morale per accedere senza freni al cuore nero dell’esistenza, come lava che scavalca regole e strutture prefabbricate.
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