16 Ott “Non si può pensare bene, né amare bene, né dormire bene, se non si è pranzato bene”
In Italia si consumano tante parole sul tema: editoria digitale sì, editoria digitale no. Ci vogliono convincere che sia questo il cuore caldo della situazione editoriale italiana sconvolta dall’avvento del digitale come i monaci benedettini dalla macchina tipografica. Al dibattito non sono mai intervenuta se non una volta dal punto di vista del vantaggio per il lettore, soprattutto.
Quello che bisognerebbe chiedersi, in questo momento storico, in Italia è proprio un’altra cosa. Un tema che ci riguarda tutti, noi che lavoriamo nell’editoria. Qualcosa di più trasversale della morte, una livella virale e karmica. Come mai gli esuli editoriali, ovvero chi cambia/lascia/perde il lavoro con i libri si rifugia in cucina?
A questa domanda non c’è una risposta. Per questo è auspicabile invocarne un dibattito pubblico dedicato. La stampa scrive dei libri di cucina, dei progetti culinari. L’intervistato assume il punto di vista dell’#arrivatoallameta ma non racconta il passaggio, quello che c’è in mezzo. Il procedimento per cui uno a un certo punto lascia la direzione di un giornale e si mette a fare pagnotte. Smette di mandare comunicati stampi e si inventa ricette. La domanda è: perché se prima traducevi (quasi gratis) saggi sulla matematica oggi mi racconti come prepari il soufflé?
Non ci credete? Fatevi un giro tra i vostri contatti/amici editoriali. Ci troverete tavole imbandite che farebbero invidia ad Afrodita.
Ma non solo. Quante storie letterarie sono alimentate da descrizioni, immagini, scene, dialoghi culinari? E come mai uno scrittore appena si distrae un attimo dal dibattito (ebook sì/no), si precipita su instagram a pubblicare la foto della sua ultima ricetta? (Sgamato con questi miei click, sì)
Le ipotesi sono diverse. La cucina e la scrittura sono un po’ la stessa disciplina. Richiedono talento, creatività, precisione, abnegazione, dolore immenso e godimento effimero. Ma può anche essere che dopo aver trascorso tanti anni ingabbiati nella perturbante evanescenza del “bello scrivere” e del “figo leggere”, una persona abbia solo bisogno di concretezza. Un passaggio astrologico naturale: dall’aria alla terra.
Per quanto mi riguarda è così. Non conosco con esattezza il motivo per cui, dall’anno scorso, ho deciso di inaugurare i primi progetti letterari in cucina. ( L’ultimo, di prossima inaugurazione a Bari, è questo qui. Vi aspetto!)
Quando mi è venuto in mente di associare la cucina alla
scrittura? Ripeto non lo so, di preciso non lo so. Ma c’entra qualcosa il fatto che da quando lavoro da sola il tempo che trascorro in casa si è decuplicato. E anche il silenzio. E la noia. E il bisogno di usare le mani.
Quindi che fai? Tante cose. Una di queste è cucinare. Pensare al menù. Fare la spesa al mercato. Sorridere controvoglia al pescivendolo. Pulire e lavare gli ingredienti. Affettare le verdure. Misurare le dosi. Alternare i fuochi. Controllare la cottura. Assaggiare mentre si leggono, con un gusto diverso dal passato, le profezie di Virginia Woolf.
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