La strada in fondo al mare di Jessica Tonelli – DopoLavoroLetteraio n. 74
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La strada in fondo al mare di Jessica Tonelli – DopoLavoroLetteraio n. 74

Il primo racconto che ha scritto Jessica doveva per forza portarla, e portarmi, al mare. Quel mare ce l’aveva in testa da quando ha scritto la prima frase, a volte la meraviglia dello scrivere è la manifestazione di un desiderio che non si conosce, questa strada in fondo al mare non è soltanto il primo racconto che Jessica ha scritto insieme a me, ma è anche la prima volta in cui ha portato il mare dentro il suo mondo narrativo, cogliendone non solo le sfumature di blu ma soprattutto le possibilità narrative, e umane, che contiene. A me il racconto piace per la capacità di restare nel presente con un piede fuori dalla realtà, una strada in fondo all’immaginazione, la prima di molte.

 

La strada in fondo al mare

di Jessica Tonelli

 

Sbarcati a Patrasso percorriamo con la moto il Peloponneso, per arrivare in uno sputo di terra sulla punta del terzo dito, l’isola di Kythira. Passeggiando lungo una spiaggia chiamata Firi Ammos, troviamo la casa prenotata per il nostro soggiorno, una casa a pochi metri dalla riva. Mi avvicino accelerando il passo, lasciandoti poco più indietro. Appena varcato il portico sento chiaramente che quella casa deve essere nostra, non solo per il tempo della vacanza, ma per il resto dei nostri giorni. Cerco di convincerti ad abbracciare questo sogno catapultandoti, in pochi istanti, in un mondo immaginario di noi due in tutte le ore del giorno e della notte qui dentro, ancora prima che passi il primo giorno, ancor prima di tutto e di noi. Tu mi scatti una foto e poi raggiungi il mare. In attesa del pranzo, sto comodamente su una poltrona di vimini all’ombra delle frasche posizionate sulle tavole del porticato, unite a dei teli bianchi che si muovono ritmicamente, all’unisono con le onde poco lontane. Mi urli che l’acqua è calda e mi inviti a raggiungerti, ma io preferisco sorseggiare la mia bibita e immaginarti giocare tra tuffi e bracciate. La tua voce arriva fresca e chiassosa. Mi piace ascoltarti così da lontano. Quando mi raggiungi, le tue labbra sulle mie sono un pesce che non vuole morire. Ti siedi a tavola tutto bagnato, ma ti asciugherai in fretta.

A volte, ti chiedo di rallentare quando, sui cigli delle strade greche, che sono un tripudio di profumi e puzze, di ginepri, mirti, sterco, rosmarini, pini e fiori, si affacciano dagli arbusti piccole edicole di ferro arrugginito e vetro, a forma di casetta, posizionate su una piccola colonna che sorregge l’anima di qualche defunto. Dai vetri imperlati di polvere si intravedono candele, foto sbiadite, fogli di carta che sono preghiere e lettere lasciate dai vivi, e poi fiori ormai stecchiti dal sole. Con la moto superiamo sempre troppo velocemente queste anime a cui rendo grazie, non so bene per cosa, forse solo per chiedere protezione per il nostro viaggio. Non posso tralasciarne nessuna. Prego per tutti, e per me.

In una taverna in riva al mare, dove i tavoli sono proprio a ridosso di un’acqua limpida e vivace, ordiniamo due souvlaki, patate di contorno, uno tzatziki, due birre fix e dolce offerto dalla casa, ovvero acini di uva marinati nel miele e zucchero. Tu sai che i miei piatti preferiti sono le zucchini balls e il saganaki e rimani un po’ deluso quando scopriamo che questi non ci sono. Ho provato molte volte a spiegarti il piacere immenso di assaporare la menta delle zucchini balls, di come siano per me la libertà dei piedi nudi su un prato e, mentre ridi, ogni volta provo a spiegarti il saganaki, che tu pensi sia soltanto formaggio fritto che finisce sempre troppo in fretta e per cui sono costretta ad ordinare una seconda porzione, tutta per me. Cerco di farti capire che è molto di più, ma non ci riesco mai. E continui a ridere quando il sapore di pecora persiste intorno alla bocca insieme all’olio che, come un rossetto sbavato, posso togliere e smorzare con diversi sorsi di birra fresca. Ogni volta, pensi che sia una scusa per bere. Ridiamo e beviamo. Ti guardo, mi fa tenerezza la tua delusione per non avermi potuto offrire le mie prelibatezze. E mentre tu succhi gli ultimi acini dolcissimi e col dito raccogli il liquore nel piattino bianco e decorato, una decorazione d’altri tempi, come il nostro amore, un gattino sotto il tavolo attira la mia attenzione con il suo pianto e, prima che mi riempia i polpacci di graffi, lo prendo in braccio, e così, vicino al mio seno, comincia a fare le fusa. Tu mi guardi come se avessi già capito tutto e infatti, senza dirci alcunché, paghiamo in fretta e lo infilo tra la mia pelle e il costume bagnato. Dovrà resistere al viaggio in moto fino a casa. Spero gli piaccia dove lo porteremo, e il nostro amore. Questa notte è piena d’amore.

Mi sveglio prestissimo e la prima cosa che faccio è controllare il gattino. Non c’è. Lo cerco in ogni angolo della casa, cammino dalle siepi di mirto del piccolo giardino, il cui odore mi fa girare la testa, fino a riva, ripeto il tragitto più volte, una traccia lasciata sulla sabbia dai miei piedi impazienti, una strada che, se fosse mia, lastricherei di pietre lisce e brillanti, per far passare il mio amore, farlo tornare a casa. La mia bocca chiama il gattino col rumore dei baci, quelli che io e te ci davamo trepidanti ad ogni incontro, ai primissimi appuntamenti, e che ora sono un richiamo disperato di madre che ha perso il figlio, e le mie labbra, ormai intorpidite, sanno di presagio, di amore perduto, che non tornerà. Ho le vertigini, mi lavo la faccia con l’acqua del mare che il sole asciugherà lasciando delle lacrime bianche ai lati degli occhi, salate e secche, poi strappo un rametto e lo annuso aspettando il tuo risveglio, sperando di veder sbucare il gattino da un momento all’altro o di svegliarmi per scoprire di aver fatto soltanto un brutto sogno e che il nostro amore è ancora salvo e che noi ci ameremo per sempre.

La strada sterrata che abbiamo imboccato, ignorando le indicazioni del GPS, che ripete senza sosta “torna indietro appena puoi”, ci porta in una spiaggia deserta, una delle tante spiagge greche dove gli alberi non hanno paura a far succhiare alle loro radici l’acqua salata, tanto sono vicini a riva. Il sole riflette bagliori dorati sulla superficie di un mare calmo e invitante e il silenzio e una brezza leggera ci infondono una pace immensa. Ci siamo solo noi due e, alle nostre spalle, una famiglia di gatti che ci scruta in silenzio. Ormai sono ossessionata dal gattino che abbiamo perso, anzi che non è voluto restare con noi e tu non mi sopporti più. In ogni pertugio, sotto tutti i tavoli di taverne e bar dove abbiamo fatto una sosta, ho guardato, controllato e sperato di ritrovarlo, così, all’improvviso, come la prima volta. Dietro ogni curva, tra le buste semiaperte dell’immondizia a bordo strada, su strade asfaltate, sterrate, deserte, affollate, chiassose, puzzolenti, morenti, senza uscita. Strade che non mi appartengono ma a cui rimango incollata e sfracellata. Tu non mi sopporti più e io, invece, vorrei che mi guardassi con amore come quando, durante un viaggio a Delphi, inginocchiata davanti al tempio di Apollo chiedevo alla Pizia, ad occhi chiusi, se sarei mai diventata madre. Ma tu non mi sopporti più e vorresti non aver mai trovato il gatto che cerco disperatamente da quando siamo arrivati. Allora guardo la gatta che, al contrario di me, ha tutti i suoi figli al suo fianco e credo di farle capire che, se non fosse per te che non ami i gatti, la riempirei di coccole e la inviterei al mio fianco, per farle ascoltare i battiti del mio cuore, che oggi tu, così distante e solitario, non senti. Ogni tanto le rivolgo un fugace sguardo e, ogni volta, lei è sempre più vicina a me, ma immobile, fino a che è così vicina da sfiorarmi i capelli, con una leggerezza che solo i gatti possiedono e, senza reclamare alcunché, si distende vicinissima, mentre tu continui la tua lontananza tutta dentro il libro che stai leggendo. Io l’accarezzo di nascosto da te e da tutto quel piccolo mondo che ci circonda. Per quell’attimo brevissimo tocchiamo mondi sottili e una felicità unica, fino a quando non arrivano i suoi figli che lasciano i loro bisogni vicinissimi a noi, come un codice segreto e una rivalsa sul mondo. Tu, spazientito, mi rivolgi la parola, ma solo per chiedermi di andarcene e io non ho più compromessi da offrirti per rimanere nella bellezza di questo luogo. Ma prima, io e la gatta ci salutiamo segretamente e per sempre. In fondo, la Grecia è piena di alberi in riva al mare.

Stiamo mangiando l’ultima insalata greca di questa vacanza che è stata tutta di tavoli in riva al mare, così vicini che le onde cercano i piedi per infrangersi dolcemente, odore di salsedine, pini, sterco di pecore, motorini senza casco, cielo frizzante, efharisto, parakalò, kalimera, kalispera. E le fusa di un gatto che ha preferito scappare, come io sono scappata da tutti gli amori che ho avuto, tutti alberi in riva al mare con radici troppo salate. Oggi facciamo anche un bagno. Non si sa quando sarà l’ultimo bagno dell’estate. Cioè si sa dopo, dopo il temporale estivo che porta via inesorabilmente tutta l’estate. E tutti i bagni guardati e non nuotati diventeranno un rammarico che durerà per tutto l’inverno. Mi bagno e assaporo ogni gesto, non lascio nulla al caso. Do importanza ai minimi particolari, bagno i piedi fino a sentire il cambio di temperatura dell’acqua, da gelida a calda, poi passeggio un po’ a riva sfregando la pelle sui sassolini, avanzo fino all’acqua al ginocchio e poi, piano piano, fino alla pancia. Guardo il fondo, si vede. Mi tuffo anche con la testa, tutta dentro il mio fondo, e non risalgo, trattengo il fiato e le lacrime. Qui non ci sono strade, qui siamo in mare.

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