28 Gen “Cesure” di Bianca Favale #dopolavoroletterario
Da quando conosco Bianca Favale conosco una scrittrice. In questi due anni l’ho vista scrivere e riscrivere sempre la stessa storia, pur celata nei mille esercizi che abbiamo svolto insieme e che io le ho seminato lunga la strada. Per confonderla. La storia che scrive è una storia piena di male, il male che appartiene solo alla grande letteratura. Questo è l’incipit del romanzo che sta scrivendo. L’immagine è invece una foto dell’adorata Francesca Woodman, un’immagine che dialoga bene con questo pezzetto di parole.
CESURE
di Bianca Favale
Quando due corsi d’acqua si incontrano, si crea un’onda spettacolare e imprevista che promette di riverberare la sua potenza per tutto il corso di quel nuovo fiume fino al mare. Una cresta impertinente che se ne frega di tutto ciò che è stato, ma soprattutto se ne frega di promettere il falso. Perché sa che rimbalzerà verso terra, e sa che quell’acqua nuova nella sua vecchiaia dovrà attraversare secche e massi e dovrà incrociarsi con milioni di altri fiumiciattoli prima di poter sentire un po’ di sale sulla sua superficie dolciastra e sporca di terra.
Così è la storia d’amore tra due persone.
All’inizio si promettono l’impossibile nel cosciente delirio di onnipotenza che li pervade quando si scelgono. Credono di avere in mano le chiavi per decidere il loro destino e quello di chi li circonda, essendo gli unici depositari del segreto della felicità. Poi, alla minima difficoltà, si lasciano attraversare dalla sfiducia, e del fiume impetuoso che erano un tempo resta poco più di un rivolo di pipì stampata da un cane su un copertone.
Nessun amore si sottrae a questa legge, a meno che non decida di voler esistere nonostante tutto e tutti, soprattutto se stesso. In questa pervicacia si nasconde un tesoro inestimabile: saper odiare chi si ama, vivere comunque senza respirare e continuare a dire io ci credo.
Nina porta alla mano sinistra una fascia sottile. È di oro bianco smerigliato, al suo interno c’è scritto io ci credo.
Gliel’ho presa a Firenze. Avevamo diciannove anni, la testardaggine e la stupida convinzione che nulla sarebbe cambiato.
Mia nonna diceva che se una cosa nasce storta, prima o poi, finisce male. Io invece concordo con mio nonno, che diceva sempre: sorte dura, sorte sicura.
E se quella mia e di Nina non è una sorte dura…
Ventinove luglio millenovecentonovantaotto.
Una serata calda.
Ecco: se qualcuno me lo chiedesse, risponderei senza esitare che era una serata molto calda.
Io e Nina avevamo organizzato quel viaggio a botte di schede telefoniche. Sceglievo con estrema cura quelle che sarebbero state destinate alle nostre conversazioni, come se lei potesse vedere il motivo stampato su quell’ancora di plastica che teneva saldamente ormeggiata la nostra relazione.
Firenze, ad agosto, è un abominio. Si entra con gli shorts e il cappellino da turista giapponese in un’enorme sauna, dove ti senti mancare e non sai se per il caldo o per la bellezza che ti sovrasta.
Avevo diciannove anni, cinque buchi alle orecchie, l’intenzione di un tatuaggio sul polso destro e molte belle speranze legate all’iscrizione alla facoltà di psicologia che a Bari non esisteva e mi avrebbe costretta a trasferirmi a Roma dove – per una pura coincidenza – Nina viveva da un anno, interpretando con maestria il ruolo della figlia ribelle del Direttore-del-Banco-di-Roma-agenzia-di-Piazza-di-Spagna, come direbbe suo padre tutto d’un fiato.
Avevo diciannove anni, un futuro da psicologa in una mano e nell’altra, la sinistra, una fascia d’argento comprata in Grecia.
Avevo tutte queste cose, poi non le ho avute più.
La vita di tutti noi è come un magnifico telaio, gli antichi Greci non si sbagliavano.
Qualcuno, mentre noi nuotiamo nel mare infinito del liquido amniotico, sistema con cura i fili dell’ordito sui ganci, e attende senza fretta di vederci sbucare dal buco nero del nostro universo più puro. L’ordito sono le nostre radici, quelle leggi a cui non riusciamo a sottrarci nemmeno quando lo desideriamo con ogni nostra forza, perché sono scritte nel sangue e al sangue dobbiamo tutti sottostare. Attende, e nel frattempo sceglie il filo da arrotolare sulla spoletta che costituirà la trama, le scelte che ci illudiamo di fare ma sono dettate da quel pezzettino di stoffa, da un pettine e due pedali.
Alla fine della nostra vita, breve o lunga che sia, il nostro tessitore si compiace del lavoro svolto e taglia tutti i fili con una lama che non perdona, e ci fa morire in mezzo alla strada come dei cani o nel caldo di un letto, circondati da chi ci ama.
Quel ventinove luglio, il tessitore mio e di Nina ha deciso di non tagliare tutti i fili, ma di staccarne qualcuno qua e là per vedere il mondo dai buchi lasciati nella sua tela. Allora non lo sapevamo, ma dovevamo essere grate di essere ancora su quel telaio, di certo malconce ma ancora in grado di diventare qualcosa in più di uno straccio vecchio.
Avevamo passato la nostra prima giornata fiorentina ai giardini di Boboli, pregustando la prima notte della nostra vita da passare insieme e organizzando nei minimi dettagli le visite dei giorni successivi.
La sera, dopo una cena alla bene e meglio da Mc Donald’s, avevamo continuato a girare per le strade del centro in preda a una felicità inclassificabile.
Via Sant’Antonino angolo via Faenza, a due passi dalle Cappelle Medicee che smaniavo di vedere. Ore ventitré e quarantacinque circa.
Io e Nina stavamo rientrando in albergo, felici e innamorate come mai. Solo un centinaio di metri ci separava dal nostro rifugio, verso il quale ci stavamo dirigendo senza fretta, tenendoci per mano. Forse faceva troppo caldo, forse avevano bevuto troppo. O forse eravamo vestite con abiti troppo corti, o magari avevano notato che ci eravamo scambiate un bacio, castissimo, pochi secondi prima. O forse erano solo dei pezzi di merda mandati dal nostro tessitore a bucherellare le nostre tele.
Quando c’è un terremoto, la gente dice la stessa cosa: è durato solo pochi secondi, ma a me sono sembrati anni. Posso affermare senza alcuna ombra di dubbio la stessa cosa, sebbene il mio terremoto sia stato avvertito solo da me e Nina.
Potrebbero essere passate ore o solo pochi secondi, non lo so, dal passo affrettato che si avvicinava a noi alla sirena delle ambulanze che ci portavano via. Di certo il tempo è passato, scandito con regolarità maniacale dai colpi che ci venivano inflitti al cospetto l’una dell’altra.
Erano quattro, anzi no. Erano cinque, e spero con tutto il cuore che siano morti in preda a sofferenze atroci, lasciando nello sconforto i loro cari, sempre ammesso che qualcuno al mondo possa aver amato cinque animali indegni di questa stessa definizione.
Due tenevano Nina e soffocavano le sue urla, un altro la sfiniva di botte con una mazza da baseball e con degli anfibi, indossati al solo scopo di far male a qualcuno.
Un altro mi schiacciava la testa con la sua suola 44 (ho portato il numero sul viso per diversi giorni) e l’ultimo, il capo, mi violentava davanti agli occhi della mia ragazza.
Ci vuole un cazzo per le donne, lesbiche di merda. Magari ora ve lo ricorderete, continuava a ripetere ansimando, mentre bucava la mia tela e se ne fotteva del mio dissenso. Ansimava e sudava, sudava e ansimava. E se tutti gli uomini si abbrutiscono così durante il coito, sono orgogliosa di aver avuto a che fare solo con lui in tutta la vita.
Aveva i capelli rasati a zero, le guance rossissime con la couperose e gli occhi grigi da lupo e aveva l’accento romano. Eravamo sette forestieri ingoiati dalla notte fiorentina, ognuno alla ricerca di qualcosa che non avremmo mai trovato.
Perché io e Nina abbiamo perso tutto quella notte, e mi piace pensare che anche quei cinque ragazzi con i capelli rasati e gli anfibi abbiano perso l’ultima traccia di bene che albergava nelle loro vite, consegnando le loro anime in pasto al peggiore inferno, quello che ci tocca scontare vivendo.
Durante la scossa di quel maledetto terremoto non riuscivo a pensare a me. La mia mente vagava senza sosta, alla ricerca di spiegazioni che non avrei mai trovato.
Perché stava succedendo proprio a noi? Cosa aveva scatenato in quei ragazzi tutta quella rabbia? Cosa ne sarebbe stato di noi?
Oggi mi rendo conto che avrei dovuto pensare a difendermi, a fargliela pagare cara, ma all’epoca ero talmente stupida da provare compassione per i cattivi delle storie. Ora, li farei a pezzi a mani nude.
Nella testa le domande martellavano in quattro quarti degno della musica da discoteca che imperversava all’epoca. Tum, tum, tum, tum. Luci stroboscopiche che si accendevano davanti ai miei occhi, accecandomi. Tum, tum, tum, tum.
E poi venne. Si sistemò con disarmante pressappochismo il suo gioiellino nei jeans e fece cenno agli altri di scappare, salutandomi con un calcio sul fianco che mi tolse il fiato.
Non avevo tempo di pensare a me. Sentivo un liquido viscido che mi scendeva sulle cosce senza fretta, come il magma dell’Etna quando incanta i visitatori con la sua potenza e terrorizza gli abitanti del posto.
Dovevo pensare a Nina, che non rispondeva alle mie urla disperate.
Quei figli di puttana le avevano spaccato la testa con la mazza da baseball.
Un taglio netto al centro del cranio, con un rivolo di sangue che le attraversava il viso e io tentavo di arginarlo con dei fazzoletti di carta. Ancora oggi, nella scatola nera della mia vita, conservo uno di quei fazzoletti, con quel sangue raggrumito che mi ricorda da dove veniamo e dove possiamo ancora andare.
La notte fiorentina sembrava sorda, un buco nero che aveva assorbito le mie urla. Poi qualcuno, al sicuro di casa sua, ha chiamato la polizia, che mi ha trovata seduta per terra con la testa di Nina tra le braccia, sporca di sangue e di terra e di sperma e di lacrime e di vita che non avrei vissuto più.
Quando siamo state portate in ospedale ho speso il tempo strettamente indispensabile a espletare le mie formalità: non me ne fregava niente di sentire la psicologa della polizia che voleva confortarmi o il medico che mi tirava boccette su boccette di sangue per farmi un milione di analisi. Non mi importava nemmeno del poliziotto che mi disse sconsolato che non li avrebbero trovati facilmente. Tutto ciò che mi interessava era correre da lei, marchiata da un codice rosso in qualche ambulatorio più in là.
Mi dissero che aveva un trauma cranico e andava tenuta sveglia a ogni costo; ci sistemarono in una camerata da sei letti del Careggi ad aspettare l’alba che avrebbe decretato, con la sua veste immacolata, la vita o la morte della mia Anna.
Potrà sembrare assurdo, ma auguro a chiunque dal profondo del cuore di poter vivere una notte così. Una notte in cui hai perso tutto, eppure il mondo è ancora tutto al suo posto, una notte in cui tutto ciò che devi fare è vivere senza chiederti nulla, in una disperata guerra di trincea contro il destino. Le stelle passeggiavano senza fretta nel cielo, e io anelavo al primo raggio di luce. Distrutta, lacerata nel corpo e nell’anima, mi ero rimessa in piedi. Perché lei era inerme come un neonato e la mia voce era il filo di Arianna che l’avrebbe portata attraverso quella notte a vivere la vita che non avevamo mai vissuto.
Non stavo zitta un attimo, e le accarezzavo la porzione di viso libera dalle bende e dalle ecchimosi. Non mancai di farle notare l’impressionante somiglianza con Piccolo di Dragon Ball, verde e con la testa bendata. Il suo Vaffanculo, Alma suonava come una melodia alle mie orecchie, ansiose di ricevere un cenno che la mia Nina non mi stava abbandonando.
Durante quella notte interminabile le chiesi di sposarmi e accettò; progettammo il nostro matrimonio in ogni minimo dettaglio, convinte contro ogni ragionevolezza che qualcuno avrebbe riconosciuto la profonda dignità del nostro amore.
Il mattino arrivò e portò con sé due novità: Nina se la sarebbe cavata con un po’ di riposo, ma avrebbe affrontato la convalescenza lontano da me: i medici avevano avvisato i Gervasi, che erano piombati a Firenze per riprendersi la figlia.
Ero abituata alla loro freddezza, a quel latente disprezzo del cazzo. Ma mai, mai nella mia vita avrei potuto immaginare che quell’atteggiamento si sarebbe fatto strada in quella ferita e si sarebbe sistemato comodamente nella testa di Nina, che in un istante dimenticò la sua promessa e mi chiese, con un garbo raggelante, di non cercarla più.
Non una lacrima, non un lamento. Una stretta di mano e un Perdonami molto più simile a una bestemmia.
No, non l’ho mai perdonata. E ogni volta che posso, le tocco quel cordone nascosto dai capelli per ricordarle, e ricordarmi, che tutto ha un prezzo nella vita.
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