06 Giu “Aurora” di Rossella Palloni #dopolavoroletterario n. 54
A questa storia vorrei portare ogni bene, perché l’ho incontrata durante uno dei laboratori che più mi ha dato modo di crescere. Questo è “Scrivere i sentimenti”, classify della Scuola Holden. Dentro Aurora rivedo e rivivo quelle parole, le lezioni in cui leggiamo insieme tanti romanzi per scoprire come l’amore si possa capire quando si smette di capire. Auguro molta buona musica ad Aurora e alla sua storia e sono sicura che saprà trovare il modo per farsi ascoltare.
Intro
Break the night with colour
The corridors of discontent
That I’ve been traveling
On the lonely search for truth
The world’s so frighteningh
Nothing’s going right today
‘Cause nothing ever does
Ooh, I don’t wanna know your secrets,
Ooh, they lie heavy on my head,
Ooh, let’s break the night with colour,
Time for me to move ahead.
(Richard Ashcroft)
Johnny Miller fissava le porte dell’ascensore che lo stava portando al bar dell’hotel milanese, in cui alloggiava con la band. Quando arrivò, per prima cosa vide davanti a sè un mare plumbeo: quello del panorama sotto ai dieci piani del palazzo, che si allungava ai suoi piedi come una donna dopo del sesso soddisfacente. Si diresse subito verso le vetrate, osservando ciò che aveva davanti: era la prima volta che suonavano in quel paese. In lontananza, le Alpi innevate circondavano la città come un anello protettivo, separandola però anche dal resto d’Europa, quello a cui lui apparteneva, rinchiudendo l’Italia in un altro emisfero misterioso, che lo attirava e lo allontanava allo stesso tempo.
Arrivò un cameriere a chiedergli l’ordinazione. Johnny spostò leggermente gli occhi, senza guardare l’uomo e istintivamente chiese del caffè nero. Aggiunse “americano” perchè altrimenti gli avrebbero portato un espresso imbevibile. Con quel movimento delle iridi, intercettò una persona seduta a un tavolo più distante, sullo sfondo.
Era una giovane donna dai capelli argentati, legati alti in una coda stretta e dolorosa. Sedeva di traverso, con un gomito appoggiato al tavolo, il piede destro aggrappato al polpaccio sinistro, che muoveva con frenesia: anche da quella distanza trasmetteva nervosismo. Si stava mordendo le unghie di una mano, mentre con l’altra sfogliava degli appunti su un quaderno. Era vestita di nero e l’unica nota di colore era la macchia di rossetto sulla tazzina bianca appoggiata davanti a sè, come una goccia di acquerello sbavata su un quadro a china.
Immersa in quello scenario pittorico, era isolata da qualsiasi evento esterno.
Quando muoveva la testa, i capelli le carezzavano il collo, sfiorando la pelle chiara in un modo che gli dette i brividi.
C’erano solo loro due nel locale.
In un altro momento della sua vita, Johnny si sarebbe mosso verso di lei. Non in quello. Sentì il cuore accelerare e battere come un dannato contro lo sterno, in uno schema che gli era diventato dolorosamente familiare. Inaspettatamente, però, invece di sentirsi opprimere il petto e le tempie, iniziò a respirare meglio. Ricominciò a respirare, a dire il vero, per la prima volta da mesi.
Con l’ossigeno, fluirono le immagini nelle vene. Come ricomparve il cameriere, gli chiese qualcosa per prendere appunti e si sedette al tavolo più vicino. Iniziò a ritrarre la scena che aveva davanti, per poi perdersi dentro alla sua mente e anche delle parole piovvero sul foglio. Rime, strofe.
Note.
Il tempo sbiadì. Avendo visto un pianoforte a coda in fondo al bar, si diresse allo strumento, ormai dimentico della ragazza.
Forse non era morto.
Non ancora.
I
Mentre stringeva la mano al manager della band, Angelica sperò che non si accorgesse che era sudata. Ben Harrison la fece accomodare nel salottino della suite, dove in terra, con la schiena appoggiata al divano e una chitarra in mano, sedeva Martin Miller. I lunghi capelli biondi erano stati legati in un nodo sulla nuca, indossava un maglione norvegese, imbarazzante da quanto era slargato e dei pantaloni felpati. Era scalzo. Sempre Ben, il manager, la presentò e lui le porse la mano, senza alzarsi.
Angelica si guardò attorno: c’era solo il chitarrista. Ben intervenne con la sua nera voce calda: Johnny sarebbe arrivato a breve. Fu invitata a togliersi il cappotto e gli stivali, ma nessuno le portò una sedia. Accoppiò le scarpe di pelle morbida accanto a sè e nascose subito i piedi sotto alle cosce, in una posa quasi yoga. Mordendosi le labbra, prese le sue cose dalla borsa e le sistemò ordinatamente sul pavimento.
Le servirono una mug di caffè caldo. No, non ci metteva lo zucchero.
Nel frattempo, Martin Miller aveva ripreso a strimpellare, completamente estraneo a ciò che gli stava succedendo attorno. Angelica notò che aveva il volto dolce e quasi infantile, dagli zigomi alti e le guance rasate, gli occhi azzurri stanchi, circondati da venoline rosse. Angelica aveva passato l’ultimo mese a preparare questa intervista e la storia della band le era più familiare della propria. I Missing Trains erano sulla cresta dell’onda da cinque anni filati. Martin Miller era responsabile per il suono aggressivo della chitarra, mentre il fratello era la voce bassa, carezzevole che trasmetteva un mondo di immagini oniriche. Insieme erano un misto esplosivo, che aveva conquistato le classifiche di mezza Europa. Tranne che nel paese di Angelica. Era la prima volta che suonavano in Italia, dove rimanevano di nicchia. A dire il vero, Franz, il suo datore di lavoro, le aveva confidato che avevano accettato solo perchè a chiederglielo era stato lui, vecchio amico di loro padre.
Già, Miller padre, Nick, il musicista più famoso della famiglia: negli anni Novanta aveva vinto l’Oscar per la colonna sonora di un film e da allora si dedicava solo a quello. Angelica si chiese se avrebbe avuto l’opportunità di parlare di lui durante l’intervista. In precedenza, i fratelli avevano sempre evitato l’argomento. Chissà se, viste le sue referenze, si sarebbero sentiti più liberi, confidandole magari qualcosa di così incredibile da poter fare il miracolo.
La porta si aprì e fece la sua comparsa una biondina anonima e, alle sue spalle, un giovane uomo molto alto, dai capelli neri scompigliati intorno al volto allungato, con un naso classico e severi occhi grigi. Angelica lo aveva già intravisto di sfuggita al bar, dove era andata a ripassare. Diamine, quello era Johnny Miller e lei non lo aveva riconosciuto! Forse si meritava davvero di essere cacciata dal Backstage.
Lui si sfilò le scarpe da ginnastica velocemente e si diresse verso il fratello minore. Quando posò gli occhi su di lei, non nascose un’espressione infastidita. Angelica rimase colpita dalla sua somiglianza con il padre: Johnny ne sembrava una versione più giovane e ribelle. I tratti in comune con Martin invece erano pochi, a malapena si sarebbero detti fratelli. Forse l’altro aveva preso più dalla madre finlandese, che Angelica sapeva essere una pittrice di una discreta fama in patria. Johnny gettò dei foglietti in grembo al fratello, borbottando qualcosa. Poi si allontanò in fretta, verso il bancone dove si trovava la macchina del caffè.
Angelica si alzò per raggiungerlo. Si presentò come Angie, maledicendosi per la voce sottile che le uscì dalla bocca. Il cantante non le strinse la mano, lasciando che lei tenesse la sua sospesa a mezz’aria e la squadrò freddamente, sorseggiando il suo caffè con calma.
– Come la canzone dei Rolling Stones?- Fu tutto ciò che disse infine.
Lei riuscì solo ad annuire prima che lui si voltasse dall’altra parte, verso il fratello. Si sedette sul bracciolo del divano, chiedendogli cosa ne pensasse dei suoi appunti. Martin inclinò la testa, storcendo le labbra. Canticchiò qualcosa su un riff orecchiabile, subito corretto dal fratello maggiore, irritato.
Angelica, estremamente consapevole della sua trasparenza, se ne stava seduta lì, osservando i due musicisti ignorarla, incapace di riprendere il controllo della situazione. Questa non era lei. Cazzo. Prese un respiro, cercando il coraggio di intervenire, quando il manager si schiarì la voce. Era un suono solo apparentemente casuale: seduto su uno sgabello, il corpo massiccio appoggiato al bancone, si vedeva che faceva finta di non seguire la faccenda, scorrendo con il pollice lo schermo del proprio telefono. Anche la ragazza bionda, la sua assistente, stava leggendo qualcosa su un tablet, appollaiata accanto a lui.
– Direi che possiamo iniziare- disse Ben, senza rivolgersi a nessuno in particolare nella stanza.
I due fratelli si ricomposero e rivolsero a lei gli sguardi. Angelica si sentì affettare da quelle lame che si erano snudate all’improvviso.
Aspettative.
Deglutì.
Afferrò i suoi appunti con mani tremanti.
I modi consumati dei Miller era impenetrabili. Quando il tempo a sua disposizione finì, lei non aveva ottenuto che risposte standard e banali. In un angolo, si rivestì e salutò artisti e staff. Si sarebbero rivisti la sera stessa al concerto nel locale di Franz, il Caligaris. In quel preciso momento, le note di Rebel Rebel risuonarono dalla sua borsa nera floscia e Angelica finse di non udirle, continuando a parlare come se non sentisse.
Appena la porta si chiuse alle sue spalle, iniziò a rovistare nella borsa, ma la canzone si era interrotta. Come aveva fatto a non spegnere il cellulare durante un appuntamento così importante? Portandosi la mano alla fronte, richiamò Tony.
– Allora, come è andata?- Le chiese, eccitato.
– Di merda, direi.
– Cosa vuoi dire?
– Tony, c’è qualcosa di importante che devi dirmi? Non è giornata! – Tagliò corto lei.
– Credo che sarai felice di sapere che verrò da te!
– Quando?
– Sono già alla tua porta. Mi ero scordato del tuo appuntamento, a dire il vero..
–Perchè sei… Tony! Non dirmi che ti hanno sfrattato nuovamente!
-Però stavolta sono stati più gentili! Non comprensivi, no, questo no…
-Tony!
–Angelica intanto era arrivata alla sua Smart nera, parcheggiata sul retro dell’hotel. Appoggiò la fronte al tettuccio umido dell’auto e si arrese.
– Frigo vuoto- disse con voce atona.
–Ci ho pensato io. Potrò rimanere a corto di soldi, ma mai di cibo!
– Mamma De Pasquale, in effetti, non mancava mai di rifornire il figlio ogni volta che Antonio tornava a Napoli. Era il suo modo di compensare il senso di colpa verso un figlio scappato dalle grinfie del padre appena possibile. Angelica accennò un sorriso e ripartì alla volta del proprio bilocale e del suo migliore amico che, con le sue gatte, aspettava al freddo.
– Insomma, possiamo concludere che i Miller sono due stronzi eccellenti- disse Tony spostandosi il ciuffo castano dagli occhi con uno sbuffo, le mani occupate a sfornare la sua pastiera delle emergenze.
Angelica si stava strofinando i capelli dopo la doccia. Sofia e Marlene, le gatte, stavano esplorando il loro nuovo appartamento, annusando cautamente la scarsa mobilia presente: un divano e un tavolo nell’unico ambiente giorno, poi, oltre alla camera da letto e il bagno a piastrelle fiorite, non c’era altro. Ci misero poco ad ambientarsi. Dopotutto, Angelica spendeva tutto ciò che guadagnava in bollette e musica: ultimamente la sua collezione di vinili si era dovuta arrestare, ma per fortuna i concerti gratuiti non le mancavano, grazie al Caligaris. Essere una giornalista musicale non permetteva grandi guadagni, soprattutto se non si scrivevano articoli. Anche Tony non navigava in buone acque, a quanto pareva. I contratti a tempo determinato non erano mai piaciuti ai padroni di casa. In genere lui era il coinquilino di qualcuno. Evidentemente, Angelica era l’unica che non avrebbe mai sbattuto fuori Tony per latitanza economica.
Non sono stati i primi a trattarmi come se fossi invisibile, nè saranno gli ultimi- disse Angelica.
Il suo intento era di sembrare indifferente, invece le parole le uscirono remissive. Tony appoggiò la torta sul tavolo e l’abbracciò così com’era, capelli bagnati, accappatoio e tutto, con le mani ancora nei guanti da forno. Per poco Angelica non scoppiò in lacrime. L’assenza di Tony nell’ultimo periodo le ricadde addosso tutta insieme e lei affondò il viso nel suo collo. Tony si sfilò un guanto e le passò una mano fra i capelli:
Colore difficile, il grigio argento. Hai già la ricrescita nera. Ci dobbiamo inventare qualcosa.
Dubito che reggeranno un’altra tinta. Lasciamoli in pace per un po’.
Quando non vuoi farti il colore, c’è qualcosa che non va, Angie…
Certo che qualcosa non andava. Stava rischiando il posto di lavoro con quegli stronzi viziati dei Miller e non aveva un piano, di fuga o d’azione. Nulla di nulla. Se neanche Franz, che l’aveva tirata su fin dal tirocinio, indirizzata e protetta, poteva farci qualcosa, era davvero fottuta.
Non ti avrà mica richiamata Dennis?- Chiese Tony, allarmato.
Angelica scosse la testa. No, per fortuna, da quel lato oscuro, tutto taceva. Sovrappensiero, Angelica passò le dita sul tatuaggio che aveva sul seno sinistro, ripercorrendo le linee dove la pelle si ispessiva a formare la lettera D. Una gatta le saltò in grembo, riportandola alla realtà. Angelica iniziò ad accarezzarla, allungandosi contemporaneamente verso la torta. Tony la fissò, una mano sul fianco, un mezzo sorriso sul volto:
Vorrà dire che farò lavorare la mia pastiera. Magari dopo mi racconterai cosa c’è che non va. Non mi piace quando non mi parli, Angie.
L’ultima volta che era stata incaricata di recensire un concerto al Caligaris, Angelica aveva passato tutto il tempo in bagno a vomitare. A malapena era riuscita ad ascoltare il gruppo. Si era fatta dare la scaletta da Tony a fine serata, ma aveva scritto quello che forse era il peggiore articolo della sua, seppur breve, carriera. Come era entrata nel locale, un antro nero dal mobilio così semplice che creava un effetto estraniante, si era sentita fuori luogo. Aveva vissuto al Caligaris, praticamente, negli ultimi anni. Lì la consideravano una specie di giornalista residente, dato che il redattore del Backstage le aveva affidato ogni recensione importante da quando era entrata al giornale, entrambi proprietà di Franz. Adesso invece le mancava l’aria come varcava la soglia. Sentiva tutti gli sguardi imputarle il fallimento di cui si sentiva portatrice. Dalla barista, al buttafuori, tutti, Angelica credeva, tutti sapevano che era una delusione. Quegli sguardi accusatori si posavano su di lei come colate di cemento e tutto ciò che desiderava era fuggire. L’unico rifugio, era il gabinetto. Lì si era rinchiusa più volte, appoggiata alla parete sottile del divisorio, respirando a fatica e deglutendo il panico che la dominava in quei momenti. Tony sapeva sempre dove venirla a recuperare. Era l’unico che riusciva a calmarla, sedendosi con lei sul pavimento sporco e abbracciandola fino a che non la convinceva a uscire. Il locale, da essere il centro del suo mondo, si era trasformato nella sua prigione di tortura.
Quindi, entrò nella sala con un misto di paura e voglia di rifarsi. I tecnici avevano appena finito di preparare l’elaborato setting del palco e stavano andando a cena. Fuori, c’era già una piccola coda di fan, in attesa sotto la pioggerellina di fine ottobre. Tony stava riavvolgendo dei cavi polverosi sull’avambraccio. Angelica gli aveva portato uno spuntino.
Allora, com’è stato lavorare con i Miller?
Nessun problema – rispose lui a bocca piena.- Pensa che quello alto ha pure imparato il mio nome!
Non ci credo…
È stato un gesto gentile, nessuno considera i fonici. Il pezzo forte, però, è l’altro, il biondo.
Sì, Martin è più simpatico.
Si è messo a scimmiottare Angus Young, mi ha fatto morire dal ridere. Ma ha una voce da paura! Perchè non canta lui?
Lo fa. Ogni tanto, in qualche brano.
Sai una cosa? Non sono così male.
Angelica guardò Tony a bocca aperta: i Miller erano esseri umani. Gentili. Quindi era lei, l’incapace. Esattamente come Dennis le aveva detto…
La band di supporto stava arrivando nel camerino accanto. Dal retro, entrarono anche i fratelli Miller, insieme al loro entourage e Franz. Angelica Incrociò lo sguardo di Martin e lui alzò le sopracciglia in segno di saluto, mentre Johnny, visibilmente accigliato, entrò di filato nel camerino. Franz, prima di seguirli, sollevò un pollice di incoraggiamento nella sua direzione.
Era sconsolante, dover essere spronata e rincuorata dal suo stesso capo. Franz Marchi si considerava più un mecenate di giovani talenti che un imprenditore. Adorava stare con i musicisti esordienti e, da quando si era ritirato dalle scene artistiche per fare da produttore alla moglie, aveva anche aperto quel locale allo scopo di promuovere la nuova generazione. Voleva dare loro un’alternativa agli schemi ripetitivi e alienanti dei talent shows. Ma ogni locale vive di concerti e pubblicità, perciò accanto al Caligaris, era nata la testata per spingere queste realtà fuori dalla ristretta cerchia underground: il Backstage, che aveva accolto Angelica subito dopo la scuola di giornalismo. Franz l’aveva sempre ritenuta la penna migliore della redazione. Peccato che la sua parabola ascendente si fosse arrestata così bruscamente. Doveva per forza uscire da quel pantano.
Prese un respiro e risalì in platea.
Aveva un concerto da recensire.
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