04 Mag “Aistighatha” di Antonella De Biasi #dopolavoroletterario n. 50
Ho conosciuto Antonella durante il primo laboratorio di editing, Allontanarsi dalla macchina, lei s è seduta al suo posto occupandone due. Il secondo era per la sua “Aistighatha”. Dal primo all’ultimo giorno del laboratorio, Antonella ha smussato gli angoli di questa storia senza mai potervi rinunciare. Se dovessi pensare a un personaggio determinato penserei al suo, a questa donna che non nasconde i fossi in cui si cade perché da quelli pure ci si rialza. Come la stessa autrice afferma è giusto scrivere e riscrivere allenandosi “Alla tecnica e all’istinto nella scrittura. A quanto sia giusto scardinare il nervo per sottomettere lo stile. Penso alle parole come autenticità, ferita, osso, trama, colpo di scena.” Auguro molta strada spianata a tutte e due queste donne, Antonella e Aistighatha. (La foto è dell’autrice)
Aistighatha
Di Antonella De Biasi
Il rumore delle bombe assomiglia ad un fuoco di artificio sparato troppo vicino: mi ricorda quelli che vedevo da bambina dalla terrazza della casa di mia nonna. Alti, maestosi e variopinti, affascinanti e nello stesso tempo minacciosi. Avevo continuamente la sensazione che quel fuoco, quelle saette potenti di tutti i colori, potessero raggiungermi. La stessa paura che ho adesso: essere raggiunta dal fuoco, dilaniata. Di me resterebbero i pezzi. E il ciondolo che mi hai regalato una sera nebbiosa, tirato fuori dalla tasca del tuo cappotto spigato, vintage, quando mi hai detto che mi cercavi da sempre.
Il giorno che sono partita per Bengasi avevo un borsone blu a tracolla, un paio di jeans nuovi e la mia reflex. Avevo i capelli schiariti dall’ultimo sole, poco trucco, un vecchio orologio da polso. Mi sentivo viva, piena di entusiasmo, continuavo a ripetermi che ero stata fortunata ad ottenere quell’ incarico. La morte del figlio del Raìs aveva confermato la controffensiva lealista e tutta l’artiglieria del Colonnello aveva di nuovo fatto fuoco contro Dehiba, mentre pochi giorni prima c’erano stati scontri con i ribelli per la conquista di una postazione alla frontiera: gli insorti avevano già conquistato Zawiyah, vicino a Tripoli e avevano bloccato l’autostrada costiera che riforniva la capitale libica di cibo e carburante. Il cerchio intorno a Tripoli e al Colonnello si stava stringendo. In un audio telefonico che era poco più di un fruscio, Muhammar Gheddafi aveva chiamato la tv di stato e aveva incitato i suoi sostenitori a liberare il Paese dai ribelli e dalle truppe Nato.
Avevamo seguito il servizio in redazione, un’afosa mattina di agosto. Poche raccomandazioni prima di partire. Ho preso i biglietti, i pass, la mia attrezzatura. Il caffè che avevo bevuto poco prima mi bruciava lo stomaco e in volo non ho dormito. Ho letto qualche pagina di un lungo rapporto dell’Onu e un vecchio articolo di un collega sulla primavera araba. Siamo stati accompagnati all’Hotel Rixos, dopo la preghiera del tramonto: le luci erano sempre più tenui e si sentivano le voci dei televisori accesi e quelle dei colleghi già arrivati, intenti a scrivere, telefonare. “Voglio una sigaretta” ho detto. Non fumavo da molto tempo: l’ultima l’avevo smezzata con te, la mattina che ci siamo lasciati. Abbiamo deciso di uscire dall’albergo il giorno seguente e tutto poi è avvenuto in pochi minuti, come spesso accade alle cose che mutano la nostra vita in modo violento e irreversibile.
Quella mattina nella nostra auto color argento stavamo per attraversare i 40 km che separano Zawiya da Tripoli e abbiamo percorso le strade della città tra la polvere fino alla storica Piazza Verde, il cuore del regime. Siamo scesi lì e abbiamo imboccato una strada stretta, vuota: e è successo lì. Da un angolo di muro marcio è spuntato un uomo in mimetica con un berretto con la stella verde, probabilmente uno dei mercenari al servizio del Colonnello: c’è stato un silenzio assoluto, prima di un suo cenno e poi altri uomini in divisa ci hanno circondati, urlando, con i mitra spianati. Ricordo come si trattasse di un sogno anzi, un’allucinazione, le mani dei militari che ci frugano, ci strattonano, ci tolgono i passaporti, i soldi, telefonini e i nostri computer e ci spingono in un minivan. Il nostro autista tira fuori i suoi documenti all’uomo con il berretto con la stella: ricordo che ci aveva detto di essere originario di Zintan, la città nemica di Gheddafi. Ho deglutito, mi sono sentita stringere, rimpicciolirmi. Saranno stati quattro colpi – secchi e meno potenti di come li sentiamo al cinema – e abbiamo intravisto l’uomo che ci accompagnava cadere al suolo. Un gruppo di ragazzi ci ha fatto cenno di seguirci verso un cancello marrone in metallo e lo abbiamo fatto immediatamente senza parlare e senza guardarci. Faceva un caldo assurdo, avevo i capelli appiccicati sulla fronte e la salivazione ridotta. Hanno detto che non possono ammazzarci così: che dobbiamo essere portati dal “Generale”. Ma qualcuno ha fatto dei segni portandosi la mano alla gola: volevo morire così? In un ripostiglio con dei colleghi, morta di sete e di paura, con i capelli attaccati alla fronte? Giurando di non essere il nemico di nessuno? “Siamo solo giornalisti” abbiamo ripetuto come un mantra. Amir è uno dei ragazzi che ci ha passato acqua, biscotti, dei datteri e ci ha fatto cenno di accompagnarci in un posto sicuro, questo edificio bianco. Se devo morire, se sarà così, cercherò di attraversare le ultime ore della mia vita, evocandoti come uno spettro. Adesso mi chiedo davanti all’agguato del destino, se c’è un modo per riportare a noi chi amiamo e chi abbiamo perso. Non credo e dovrò accettarlo. Ecco. Non c’è un modo per riportarti da me con tutto quello che avevamo. Ci hanno distribuito materassi e cuscini: nella dispensa della casa è rimasto pochissimo e le taniche con l’acqua potabile sono quasi vuote. Il rumore degli spari si alterna a quello del rombo degli aerei. Ancora una volta increduli avvisiamo i nostri giornali. La linea è difettosa, le chiamate con il Consolato italiano di Bengasi procedono a sprazzi. Stamattina quando mi sono svegliata il lato sinistro del mio corpo era segnato dalla sensazione di minuscoli aghi e ho sentito parlare in francese al piano inferiore: una collega stava parlando al telefono satellitare del proprietario della casa in cui siamo prigionieri. Siamo a Tripoli e dalla nostra finestra si scorge un centro commerciale, la cui proprietaria è la figlia di Gheddafi. Cerco di tenere sotto controllo l’ansia e l’urgenza che ho di chiamare la mia famiglia per rassicurarli, dirgli che sono viva, che sono ancora qui. Tra poco dovrebbe toccare anche a me, mi ripeto nella testa come un mantra. Ma non basterà a farmi sentire viva. Osservo i volti dei miei colleghi, annuso il terrore che aleggia in questo appartamento buio, con le persiane abbassate, con la luce fioca, che vira verso il rosso da una certa ora in poi. Cerco di ripetermi che ognuno di loro ha per forza vissuto delle storie che hanno avuto il potere di cambiarli e che se sono qui, con me, in questo inferno è perché qualcosa di molto forte li ha spinti a farlo. Siamo digiuni, sfiniti e ascoltiamo fuori dalla porta voci minacciose che dialogano in arabo. Devo farmi forza: e ti bacio col pensiero, qui, dalla mia prigione.
Ci siamo dati un bacio spezzato l’ultima volta che ci siamo visti. Eravamo deformati dal peso del distacco e dalle unghiate dell’assenza: sicuramente è stato il nostro ultimo bacio. Questo pensiero mi toglie l’aria come se lo realizzassi per la prima volta e nello stesso tempo mi spinge a scrivere senza sentire i morsi della fame allo stomaco, la paura che sale, la sensazione di essere persa. La nostra storia è l’unica cosa che in questo momento mi protegge dalla morte. Osservo le mie mani: mani magre, callo dello scrittore, mani di bambina veloce, portata alla scrittura, mani che mi ricordano che sono esistita toccandoti. Quando disegnavo sulla tua schiena e fuori era già buio, ma non un buio spaventoso come questo: no, un buio di stelle e di musica in lontananza, un buio confortevole in cui addormentarsi uniti. Mi manca il nostro incastro perfetto quando ci stringevamo e le tue canzoni in un orecchio appena sveglia: la tua voce, non devo dimenticarla.
Avrei dovuto trovare un modo per custodire la sensazione di sentirmi con te una cosa sola: a parte le fotografie, a parte i messaggi che ci siamo inviati, a parte le cose che ho scritto di noi, come adesso. Adesso che non puoi immaginarmi qui a battere i denti dalla paura, in un paese in guerra, chiusa, rapita. Se muoio, ti giuro che ti vengo in sogno e ti racconto tutto. Mi manca che mi sogni, che mi respiri, che mi scegli. Che mi salvi. Ti ho poggiato il piede sullo sterno. Volevo sentire sotto il mio piede il tuo ritmo cardiaco, il rumore impercettibile del sangue che scorre. Ma adesso capisco che non l’ho fatto solo per quello: l’ho fatto perché volevo impormi, perché tu fossi indifeso, perché io avessi il potere di non farti evaporare come una scia grigia del tuo tabacco sbriciolato. Ci siamo guardati a lungo negli occhi, poi ho sollevato il piede. Qui siamo in otto: e non c’è molto da mangiare se non il cibo che Amir ci passa di nascosto. All’interno dell’edificio la corrente elettrica è difettosa, altalenante e quando anche la poca luce che filtra dall’esterno cala, bisogna utilizzare le torce e le candele per potersi muovere tra le stanze e tra i corridoi. L’oscurità ci rende più cauti, più guardinghi, silenziosi: animali in una tana troppo stretta e estranea, pieni di diffidenza e paura e al contempo pervasi da una grande speranza di ritornare vivi, uscire, ricucire il trauma della paura. Non si respira a volte: la mancanza di corrente annulla l’aria condizionata e non permette di avere i frigoriferi funzionanti con il rischio costante che le pompe che fanno circolare l’acqua smettano di funzionare. A quante persone si appartiene nella vita? Quante alleanze possiamo davvero contare di avere avuto? La tomba. Se non usciamo vivi di qui, avremo forse dei funerali di Stato: qualche collega scriverà di noi, mia madre si strapperà tutti i capelli, tu troverai queste parole di carne, la mia unica libertà che consiste nel ricucire un percorso con ciò che ho vissuto.
Rendere Noi. Laddove non siamo riusciti ad esserlo. A restare insieme. Eppure tu sei il sangue mio, via di rinascita, formula chimica, sentiero che c’è sempre stato, sei la persona con la quale ho sentito di essere tornata a casa dopo essermi scomposta come in una frattura, sei l’attivatore di me stessa. La scheggia che per mesi e mesi ha rappresentato il mio mal di testa. Ho mal di testa ogni giorno: di notte sogno tempeste, aerei, il tuo abbraccio. Nell’appartamento dove siamo detenuti, sono svenuta due sere fa. Avevo appena percorso il corridoio scuro con la mia torcia: mi sentivo tornata bambina ma pervasa da una solitudine immensa. Ho avuto un senso di vertigine fitto, fastidioso: ho cercato di illuminare una bottiglietta di acqua minerale rotolata in fondo al muro, ho pensato che versandomela sul viso, avrei evitato di cadere al suolo, priva di sensi. Ho ingaggiato una lotta con me stessa, ma ho perso. Mi sono sentita d’un tratto senza peso, come cadere da un palazzo altissimo. I miei compagni di prigionia mi hanno detto che ho chiamato un nome, il tuo.
Osservo il tempo silenzioso e sorseggio l’acqua tiepida dalla mia bottiglia, sono seduta sul pavimento. Guardo le ombre fuori, la polvere che si solleva di questa città assediata, i militari che passano sulle loro auto scoperte, penso alla mia famiglia, ai titoli dei telegiornali. E tu che non immagini dove io possa essere.
Ricordo quello che mi avevi detto quando ero poggiata al muro di quella stazione: che ciò che avevamo trovato noi era troppo forte e salvifico, qualcosa che non accade spesso nel corso della vita. Avevi una tazza di caffè in mano, gli occhi stanchi, scaldavi la mia mano nella tua che tenevi stretta nella tasca del cappotto: sembravi uno che nella mia vita c’era sempre stato e che doveva solo manifestarsi. Mi hai detto che ero il tuo odore. E adesso che sto per morire, sei dall’altra parte del mondo, non sai di me e non mi pensi. Stavamo insieme da un mese. E eri già padrone assoluto del mio battito cardiaco. Camminavamo tenendoci per mano, lungo un sentiero di campagna, gli ulivi ci fiancheggiavano, gli arbusti lambivano i nostri passi. Abbiamo intravisto poco distante dal nostro cammino, una piccola chiesetta, con i muri scrostati e ci siamo avvicinati. Sulla facciata c’era l’effige scorticata di San Michele Arcangelo con la spada sguainata, il mantello aperto e la faccia del demonio, sotto i suoi calzari. Adesso solo adesso, penso che potrebbe assomigliare al volto dell’uomo col berretto verde e la mimetica, che ci ha condotti qui. Prigionieri tra queste mura, che non parla inglese, non vuole capire che siamo solo esseri umani, armati solo della nostra paura. Siamo entrati stringendoci la mano e una nuvola di odore acre e persistente ci ha accolti come potessimo toccarlo: la chiesetta era stretta, poco illuminata ma in fondo, vicino al piccolo altare in tufo, c’erano accese delle candele bianche e basse.
Io mi sono avvicinata piano: ho preso una candela tra le mani e ho iniziato ad accendere quelle vicine, in silenzio. Hai preso la tua macchina fotografica e mi hai scattato una foto che ancora conservo, che vorrei avere con me adesso, che ho pensato molte volte di strappare, gettare da qualche parte. Ti sei avvicinato e mi hai posato una mano dietro la schiena: “Non credo. Ma credo al nostro amore”, mi hai detto piano. Mi sono girata e ti ho abbracciato. Un attimo dopo abbiamo scritto i nostri nomi su un foglio strappato dal mio taccuino azzurro e lo abbiamo arrotolato sotto l’altare: ho pensato che in quel modo, seguendo quello che era nello stesso tempo un incantesimo e una preghiera, qualsiasi cosa fosse successa, saremmo rimasti insieme sempre, comunque.
Ritroverai quel foglietto in quella chiesa nelle campagne della nostra terra con i nostri nomi intrecciati, in un giuramento. Nel giaciglio afoso dove mi addormento la sera ho visto la tua ombra. In realtà l’ho vista per lunghi mesi dopo che ci siamo divisi: a tratti mi provocava dolore oppure calma, sollievo. Ora in questa prigionia credo che il tuo alone mi riporti a come mi sentivo con te. Sotto un’ala. Ho sempre saputo che l’unica ala della mia vita eri tu: è questo che mi fa pressione sul cuore e che ho cercato per molto tempo di superare. La nostra è stata una storia d’amore forte e alchemica, piena di sogni e di segni. Segni che ci dicevano che eravamo nostri e che dovevamo avvenire.
È stata una grande passione e una serie meravigliosa di promesse viventi. Sembrava l’alba di un ciclo nuovo e di una ricompensa infinita. Sembrava l’amore-base sul quale poterci costruire un cammino stabile. Magari tutto. E lo era. Ma non è andata così. Questa prigionia mi fa sentire senza peso, come volatile, solo pensarti mi rende stabile. Guardo arrivare Amir: lui è un “gheddafista”, ha gli occhi scuri, i capelli corti e dialoga con noi in un inglese ruvido. Ci ha detto che dobbiamo uscire di lì e per metterci in salvo occorre raggiungere l’Hotel Rixos, dove eravamo, rifugio e simbolo della capitale liberata. “There’s a camion”: dice indicandoci un camion verde e sporco, parcheggiato, nel cortile, il nostro traghetto per tornare nel mondo occidentale, sani e salvi. Dobbiamo essere lesti e silenziosi e metterci in fila indiana. Io ho raccolto tutto in fretta, tremavo.Amir era avanti a noi: recitava delle preghiere, l’ho sentito pronunciare una parola “aistighata”: sapevo che significava “rievocazione”. Ho subito pensato che anche lui stava richiamando qualcuno nella sua vita che potesse proteggerlo. Siamo saliti sul camion e ci siamo distribuiti: qualcuno nell’ abitacolo, qualcun’altro nel cassone e Amir alla guida. Siamo usciti dalla città piano, percorrendole le vie vuote, gli sbarramenti di cemento, le case sfregiate dagli ultimi combattimenti, decorate con le bandiere sporche. Dalle finestre degli edifici spuntano le canne dei fucili, prolungamenti di ferro nero, spaventosi: si sparano e si puntano, fazioni nemiche nello stesso quartiere. I posti di blocco mi fanno stringere le ginocchia al petto: non dico nulla ma ho timore che tutto ricominci. Ci sono le bandiere dei ribelli e Amir è un loro nemico, ma il camion continua il suo percorso, sballottandoci come animali, mentre restiamo in silenzio e ascoltiamo i suoni della guerriglia. Amir si volta verso di noi, batte una mano sul volante, indica l’Hotel sullo sfondo. La dimensione tra noi colleghi è contratta e sospesa, nessuno riesce a essere davvero lucido, partecipe di quel momento che preannuncia la salvezza. Ma l’Hotel Rixos, è davvero vicino, la zona franca. Siamo in salvo. Mi sono salvata davvero.
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