A Bari con Lolita Lobosco – Passaggi di dogana
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A Bari con Lolita Lobosco – Passaggi di dogana

I busti non hanno mai le scarpe.
Lauren Elikin, Flâneuse

«Ci sono bambini che non crescono mai, e io sono una di quelli. Tanto vale dirlo subito, perché appena vedo una pozzanghera non resisto alla tentazione di sguazzarci dentro, soprattutto quando sono con il Maggiolone. E allora si salvi chi può.»

Per Lolita Lobosco l’infanzia comincia e finisce a Barivecchia. Qui l’aria è stropicciata. Ogni passo stride sul pavimento, come lana infeltrita sulla pelle. Di questa zona amo i cuori minori, le chiese non altisonanti. Tra tutte una: Santa Teresa dei Maschi. Ci arrivo imboccando Strada degli Orefici, un angolo meno esposto al folclore. Poco prima di raggiungerla, saluto con lo sguardo Vita Costante, un nome che alberga nella mia immaginazione più o meno da sempre. Non l’ho mai vista. Onestamente non so chi sia. Forse l’ho incontrata, solo che non lo sapevo. Vita Costante è il nome affisso sull’insegna di un panificio storico, a due passi dalla chiesa di Santa Teresa dei Maschi. La stradina è un bivio ancestrale. Da una parte c’è Santa Teresa e la veracità dei vicoli barivecchiani. Dall’altra, invece, si raggiunge una delle piazze più blasonate: Piazza Mercantile. I motivi per cui è tanto amata sono in questo perimetro. Il mare alle spalle, la pietra bianca del Palazzo del Sedile.

«Scendo per via degli Orefici, e anziché girare a destra per tornarmene a casa finisco in piazza Mercantile davanti al chioschetto del bar, e mi prende la voglia di un cono gelato. Detesto le signore beneducate che lo mangiano con il cucchiaino, un gelato va leccato sissignore, a costo di passare per una ragazza poco perbene.»

Da queste parti stare in strada è cominciare una festa. La strada è un prolungamento dell’abitazione, un modo di vivere la giornata spezzandola facendo chiacchiere, ritrovando o conoscendo persone. A Barivecchia la vischiosità dei pavimenti tra dentro e fuori le case non ha confini. La sensazione tattile che ricollega questi vicoli all’infanzia è la ruvidezza. La pietra è liscia ma aspra, come la buccia dei limoni. Un bambino cade dalla bici, mentre si contorce per il dolore e si lecca le ginocchia sbucciate, qualcuno accanto, verosimilmente un genitore, gli ricorda che la sua storia con il dolore è appena cominciata. Ora devi avere il resto, è il monito che accompagna la risalita dopo la caduta. La punizione: la beffa e il danno di essere piccoli.

In una lirica di Louise Glück ho letto: guardiamo il mondo una volta nell’infanzia, il resto è memoria. Bari vecchia mi ricorda a cosa serve la memoria. La memoria serve per osservare l’infanzia da vicino. Per nutrirla da adulta. A volte si pensa che un bambino o una bambina siano monelli o monelle invece sono soltanto feriti. Davanti a Santa Teresa dei Maschi, mi accorgo che la bambina incontrata in Piazza Diaz mi ha seguita. Mi fissa con le mani in tasca, come se avesse un tesoro da proteggere. Dietro la sua schiena, spunta un palloncino bianco. Sembra un’ala spezzata. È legato intorno al polso sinistro accanto a due braccialetti di stoffa, uno rosa e l’altro giallo. Il palloncino/ala si muove al rallentatore. Si dice che a una scrittrice basti aver avuto un’infanzia per cominciare a scrivere. Questa bambina è sulla buona strada. La madre parla al telefono con qualcuno, le cose non sembrano andare per il verso giusto. La piccola non sembra turbata dalla burrasca che la madre tira fuori contro la persona con cui sta parlando al telefono. Continua a osservare il palloncino, poi occhieggia verso di me. Non capisco se mi voglia mettere in imbarazzo, oppure sollecitare ad andarmene, la zona è tutta sua. Quel piccolo slargo di Barivecchia dove sono cresciuta, senza alcuna consapevolezza della bellezza che avevo intorno, oggi certo non mi riconosce. Quando ci passavo, fantasticavo sui leoni all’ingresso che un giorno avrei cavalcato, confondendoli per una giostra a buon mercato. Non si sale sui leoni, sono monumenti. Mi dicevano, mentre i ragazzini della zona scavallavano da uno all’altro. Si divertivano. E io sapevo che era un modo di giocare che non capivo. Un’usurpazione del gioco nel gioco. Come sta facendo lei, quella piccola spregiudicata e fintamente silenziosa bambina, ha scambiato il palloncino per uno scettro. Si installa a cavalcioni sul dorso di uno dei due leoni di pietra, io vorrei chiamare sua madre, distratta al telefono. Se la bimba cade, sono l’unica persona testimone, invece la lascio stare e sento il gelo della pietra sulle gambe, qualcosa di tetro e qualcosa di irresistibile. L’infanzia che risale, l’indigestione di me stessa.  Santa Teresa dei Maschi ha sempre il fascino di una cattedrale nel deserto. La chiesa risale alla fine del 1600, in piena epoca barocca. I Carmelitani ne iniziarono la costruzione, completandola intorno al 1696, come riportato nella lunetta del timpano della facciata. La denominazione è utilizzata per evitare la confusione con l’altra chiesa di Santa Teresa, dove alloggiavano le Carmelitane e per questo detta Santa Teresa delle Donne. Oggi non esiste più. Da bambina questa chiesa era una porta sempre chiusa. Se pensavo alla fine di qualcosa, pensavo ai gradini che conducono al suo ingresso. Quella porta sempre chiusa sotto casa segnava la fine della scuola, la fine dell’estate, la fine delle Barbie, la fine della merenda, la fine dei compiti, la fine delle feste di Natale, la fine della fame e della sete, la fine delle lacrime, la fine dei capelli lunghi, la fine dei baci mai dati.

Estratto di A Bari con Lolita Lobosco. Sei passeggiate in cerca d’amore, Giulio Perrone Editore, dal 12 luglio negli store online e in libreria.

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