“Il posto di Dio” di Loredana De Vitis – Dopolavoro letterario n. 39
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“Il posto di Dio” di Loredana De Vitis – Dopolavoro letterario n. 39

Loredana De Vitis conosce bene il gesto dello scrivere, sembra che ogni volta le parta dal petto, trafiggendole la pelle e sconfinando solo dopo essere stato espulso con furore sulal pagina. A me sembra lei combatta, non che scriva. Questo romanzo, ancora inedito dopo le prime prove pubblicate con felice esito, ha un furore diverso dagli altri. contiene una buona dose di tenerezza, dentro la ferocia di una storia nostra, del sud, delle donne, degli uomini, delle croci e delle delizie quotidiane. Questo è un breve stralcio del suo “il posto di dio” che troverà sicuramenrte un posto nelle librerie. (La foto è del’autrice.)

il posto di dio

di Loredana De Vitis

stralcio del capitolo 2 – “profumo di casa”

Marta indovinò in pochi istanti ciò che l’aspettava per cena. Tegamino di uovo e piselli, patate al forno al rosmarino, bietoline lesse e pane abbrustolito, arance zuccherate e budino alla vaniglia. Marta amava i profumi e il calore della sua vecchia casa, non l’unica che aveva avuto ma l’unica che poteva ricordare. Zia Roberta era riuscita a farle sembrare normale la loro micro anomala famiglia avendola sempre nutrita d’affetto e cure, cibo delizioso, giocattoli quanto basta e senso del provvisorio a profusione.

I genitori di Marta si chiamavano Rosaria e Pino ed erano morti avvelenati dai funghi. Una storia che zia Roberta aveva sempre raccontato in modo così colorito e distaccato che Marta era riuscita a costruire con quella morte un ottimo rapporto: l’intossicazione e il decesso di quei-due-deficienti, come diceva sempre la zia, aveva preso nei pensieri e nell’animo di Marta le sembianze di quello che era stato in effetti. Una morte da scemi. Alle ore 16.04 del 4 novembre 1977, di ritorno dal piccolo terreno in campagna ove si recavano ogni settimana quando per innaffiare quando per diserbare quando per cogliere ciò che di maturo si poteva cogliere utilizzando gli attrezzi custoditi alla meno peggio in una piccola stanzetta abusiva e una zappa nascosta in un cespuglio di mirto, Rosaria e Pino s’erano fatti solleticare da un cesto di funghi freschissimi-buonissimi venduto per strada da un vecchio barbuto con le mani tremanti.

Nessun dubbio li sfiorò sulla provenienza, né sulla perizia di Giovanni il barbuto [ché erano due-deficienti], e presto-presto i funghi vennero lavati tagliati e buttati in padella per ricavarne un sughino alla pizzaiola. Dieci ore dopo cominciarono i sette giorni più tragicomici degli assai brevi annali della famiglia Mariani-Di Pierro. Stomaco e intestino furono i primi a dare chiari segnali di cedimento, poi fu la volta dei muscoli, quindi dei neuroni. Al collasso dei reni non vi fu rimedio, i due-deficienti spirarono lasciando Roberta definitivamente contrariata e Marta a ripetere la-mia-mamma-si-chiama-Rosaria. Solo in punto di morte Pino ammise ciò che avevano capito tutti e che i medici ripetevano insistentemente con aria di severo rimprovero: che avevano mangiato funghi velenosi, meritandosi così che, all’accomodamento del cadavere, Roberta volle lasciargli la bocca aperta in balia d’una mosca. Guardando Rosaria nella bara prima della piombatura, Roberta ripeté che sì, anche sua sorella era una deficiente e infatti un deficiente s’era sposata, e meno male che i due-deficienti non s’erano sognati di far assaggiare il sughetto avvelenato alla bambina [no no, solo latte e biscotti], sennò l’inferno non glielo toglieva nessuno. A quel tempo Marta aveva tre anni e desiderava tanto una sorellina. Le toccò, invece, raccogliere i giocattoli e trasferirsi dalla zia. Perché coi nonni materni morti da un pezzo, e quelli paterni morti di fresco, la palla passava per forza a Roberta.

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