16 Apr Goliarda Sapienza: la mia musa lavica
Questa è la versione integrale del mio articolo comparso sull’inserto letterario “Mimì” ne “Il Quotidiano del Sud”, domenica 13 aprile, dedicato alla scrittrice Goliarda Sapienza
L’odore dei limoni – Lettera per una scrittrice
di Alessandra Minervini
Cara Goliarda,
quando ti penso sento l’odore dei limoni. Un odore che incornicia le mani, che sa essere infinitamente aspro pur essendo buono.
Ti considero un’amica non una maestra, un’ispirazione personale che tengo per mano o in tasca e che porto dovunque e dovunque ti conduco mi danno retta. La tua scrittura è un’ispirazione che non piomba dall’alto ma mi tiene compagnia. Quello che mi ispira di te, sei tu.
Mi vieni spesso in mente. Tu, che da ragazzina, al cinema Mirone sognavi di essere come l’attore Jean Gabin, a cui tutto era concesso in quanto uomo. Anche a me capita di sentirmi non all’altezza. La mia autonomia (letteraria) provoca un certo scioccato fastidio. Il compagno di una vita non vuole condividerti con le Lettere.
Come reagisco? Fottendomene. Un po’ come facevi tu.
Mi chiedo: ma è vero che io, in quanto donna, devo dimostrare di essere più brava? La mia risposta è NO. Non voglio essere una donna che si mette da parte, ma non voglio nemmeno sentirmi in competizione. E non voglio nemmeno fare come le donne che escludono gli uomini. Osservo festival dedicati solo alle donne, ai quali partecipare mi crea un po’ di imbarazzo. Io quando parlo, parlo tanto di uomini. Scrittori che mi ispirano o personaggi maschili a cui devo molto. Se ti ho letto, Goliarda, lo devo a un uomo. Era il 2005, vivevo a Torino e uno dei miei docenti mi passò una versione ben consumata de “L’arte della gioia” (ancora nell’edizione Stampa Alternativa). Me la passò come una molotov. Nel personaggio di Modesta ho trovato tutto: cibo e fame, luce e giorno, mare e pioggia, anche una femmina.
Una femmina che, come te nei tuoi diari, non ha paura di occuparsi della casa, di stirare lenzuola. Si dice: se sei ovunque, sei chiunque. Tu invece hai scelto dove stare e chi essere, tu hai scelto chi amare: la scrittura. “Non sono più giovane, non ho tempo. Devo scrivere.” Così rispondevi a chi ti proponeva questo o quell’altro circoletto. “No, non sono una donna che si guadagna la vita, sono una donna che guarda dalla finestra e ha una camera per se stessa. Vi ripugna? (…) Sono libera e questa libertà la voglio far fruttare”.
Allora ti chiedo: se oggi non è la possibilità di essere libere che manca, perché non fare qualcosa di completamente nuovo invece di spadroneggiare nel vecchio?
Magari, per una volta, qualcosa invece di accadere: cadrebbe giù. Giù i silenzi, giù le parrocchiette, giù i soliti giri, giù le solite lagne, giù le guerre tra poveri. Ci vuole una bella caduta. Non una caduta di stile ma una caduta per un nuovo stile: “Sono caduta tante volte, eppure eccomi qua, in piedi, che ti scrivo. Anzi ultimamente sono venuta alla conclusione che le persone che non cadono, in realtà è perché non stanno in piedi”. Anche io cado, cara Goliarda.
Inventiamo una nuova visione letteraria, un nuovo sguardo e chiamiamolo: Alle cadute di tutte le guerre. Nell’attesa come te “stiro lenzuoli”, cerco la pace e l’odore dei limoni.
RITRATTO DI GOLIARDA – UNA DONNA LAVICA
“Sai come sono fatta – aveva detto ad una conoscente tre giorni prima di morire – è possibile che scompaia per un po’ per poi tornare all’improvviso”. Goliarda Sapienza è nata a Catania nel 1924 ed è morta a Gaeta nel 1996; è stata un’attrice e poi una scrittrice, è stata una donna alla ricerca di un’identità vivacemente irripetibile.
L’infanzia siciliana, che racconta in “Io, Jean Gabin”, fu segnata dai due eccentrici genitori. La madre, la lombarda Maria Giudice, fu la prima dirigente donna della Camera del Lavoro di Torino e una delle prime a portare avanti le protobattaglie sulle questioni femminili; il padre, Peppino Sapienza, fu un avvocato sindacalista catanese detto “l’avvocato dei poveri”, tanto influente nella formazione della figlia al punto da non mandarla a scuola come gli altri, quando gli altri erano i Balilla. Così Goliarda la vita la imparò dalla vita: per le strade di una Catania malfamata e ambigua, in mezzo alle chiacchiere di pupari e intrecciatori di gelsomino, al cinema Mirone. La sua è una Sicilia fatta di visioni bizzarre, immerse in un’umanità impastata di passionalità bestiale.
I genitori, figure cruciali, li amò tantissimo e molto da loro venne influenzata, crescendo come creatura libera. Gli stessi genitori, che non si sposarono mai e che ebbero Goliarda in tarda età e in seguito alla precoce morte del primogenito (Goliardo) a cui probabilmente la scrittrice fu sempre legata in un immaginario cordone ombelicale, la spronarono a lasciare Catania per trasferirsi a Roma. Qui, era il 1943, studiò al Centro Sperimentale e nel 1947 conobbe il regista Citto Maselli con cui ebbe una relazione more uxorio, lunga quasi 20 anni. La prima parte della sua vita romana fu caratterizzata da una certa mondanità, sempre austera come il suo sguardo, che la portò a calcare palcoscenici teatrali noti e a girare film d’autore con Visconti, Blasetti, Comencini e Zavattini.
Ma le mancava qualcosa. Una mancanza che esplose con la morte della madre, nel 1953, dalla quale Goliarda non si riprese mai del tutto. A parte scrivendo. Fu proprio per l’amore di figlia che, persa la madre, non sapeva dove far fluire, che Goliarda fece la scelta che le cambierà definitivamente la vita: scrivere.
Dovete immaginare, se non l’avete mai letta, una scrittrice che non basta a se stessa. Il suo sguardo si fa parola e fuoriesce dalle cornici stabilite, con la consistenza della lava di un vulcano in evoluzione. Un vulcano che si spegne solo per ricaricarsi, meglio, della materia di cui si compone e riemerge in forma di lava, mai uguale a se stesso. Questo processo di malattia e guarigione avviene attraverso le parole, Goliarda fu salvata dalle parole.
“Una delle tappe d’obbligo che la vita ci impone: quella di essere abbandonati o abbandonare” è un karma che poi ha scontato nella vita, lottando. Goliarda è stata una donna militante: una lotta che non ha a che fare con la militanza politica. Lei ha lottato per rimanere se stessa, esprimendo una soggettività per l’epoca audace e addirittura più all’avanguardia delle femministe “di regime”. Per farlo è passata dalla povertà, dalla lascivia, dall’amore e dalla solitudine. Ma mai nella vita, almeno da quanto si legge, ha desiderato muovere qualcuno a compassione, pur essendo una delle scrittrici italiane più a lungo dimenticate. Nemmeno quando, per disperazione, rubò dei gioielli a casa di alcune amiche Goliarda intenerì nessuno e scontò la pena a Rebibbia nel 1956. Un’esperienza che ispirerà “L’Università di Rebibbia” (1983), romanzo autobiografico in cui non si risparmia.
Per L’arte della gioia, sua opera simbolo finito nel 1976 (dopo 10 anni di lavorio fisico e intellettuale) Goliarda rinunciò testardamente a tutto. Ma perse. La storia di Modesta vide la luce in un’edizione completa solo nel 1998 grazie a Stampa Alternativa, quando ormai la scrittrice era morta e per merito del suo ultimo marito, Angelo Pellegrino. L’opera viene apprezzata con la riedizione Einaudi nel 2008, solo allora lettori e lettrici italiane conoscono un’eroina letteraria che racchiude una buona parte di noi, Modesta. La storia di Modesta fa parte di quel modo di essere che normalmente seppelliamo, con tutta la testa, dentro la sabbia. La vergogna, la cattiveria, la solitudine, l’ipocrisia, la viltà. L’arte della gioia contiene le debolezze umane e le esalta. E questo, soprattutto se si scrive, deve ispirare. Sempre. Quelle de “L’arte della gioia”, non furono donne di crinoline ma donne di rovine.
Goliarda morì, a 72 anni, ma fu ritrovata tre giorni dopo dalla dirimpettaia il 30 agosto del 1996 a Gaeta, il luogo dove vide la luce e il tormento la sua Modesta. Sulla lapide, a Gaeta, c’è una sua poesia, che evidenzia cosa fu per lei l’essere al mondo:
“Non sapevo che il buio non è nero/che il giorno non è bianco/che la luce acceca/e il fermarsi è correre ancora di più”.
Leggendo Goliarda Sapienza si ritrova un antico o un futuro legame. Forse è questa l’arte della gioia che lei cercava, l’arte di diventare artefici dei nostri desideri.
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