22 Mar “Magnificat (Storia di un amore risvegliato)” di Fabio Zuffanti – Dopolavoro Letterario n. 33
Questi sono i primi due capitoli del romanzo inedito di Fabio Zuffanti, musicista e critico musicale. Una storia in cui la musica si accende dentro i battiti del cuore della protagonista, Anna una signore che ha smesso si chiedersi cosa si prova a stare al mondo finché un giorno non decide che è arrivato il momento di domandarselo ancora, sempre.
(L’immagine è presa da qui Gianni Lena )
1.
Si sveglia di soprassalto, affannata e con il cuore che le martella il petto come fosse reduce da un’intensa battaglia contro un nemico che non ricorda.
Sono le tre e ogni attività umana è sospesa, il mondo giace velato dalle nere lenzuola della notte. Si sente passare ogni tanto un’automobile, il rumore di una sirena antifurto, un cane che abbaia da molto lontano. Ciò che resta della realtà galleggia nel silenzio, nella stasi. Dentro la sua testa però il frastuono dei pensieri è fortissimo, sono frecce acuminate che non le lasciano tregua. Ogni fotogramma della vita le turbina davanti agli occhi insonni, nella baraonda di immagini scorge distintamente tutto quello che poteva essere e non è stato, tutto quello che è stato e non tornerà.
In nottate come questa rimane distesa a letto prigioniera di se stessa fino a quando le capita di intravedere i primi sottili raggi di sole farsi largo tra le tende. Mentre i bagliori dell’alba cominciano a piegare le tenebre al loro volere i pensieri finalmente si placano e lei si riaddormenta.
Questa volta però qualcosa deve cambiare, non può rimanere alla mercé del caos che la invade, deve alzarsi, muoversi, fare il possibile per smettere di pensare. Emette un respiro profondo, toglie di scatto le coperte come si liberasse di un fardello gravoso, infila le pantofole e si alza in piedi.
Davanti al letto c’è il pesante armadio di legno scuro con le maniglie dorate a forma di conchiglia, un mobile che irradia sicurezza, che è invecchiato insieme alla casa e che durante la notte sembra proteggere placidamente i dormienti. In ogni anta c’è uno specchio che rimanda la sua immagine illuminata dal pallido lucore che penetra dalla finestra. Le sembra di essere un fantasma; le caviglie sottili, la vestaglia che le arriva alle ginocchia e lascia intravedere le forme magre, i corti capelli di un bianco candido che le sfiorano il collo. Il volto che ancora conserva lo stupore di una bambina, con le sue sopracciglia delicate e i limpidi occhi azzurri che lanciano schegge inquiete.
Non accende la luce, la casa è immersa in una bolla nera che sobbalza lenta in un mondo senza suoni. Percorre il corridoio, il luogo dove i vivi e i morti si incontrano, con l’incessante brusio dei pensieri che la soffoca, le pareti buie che si stringono per schiacciarla. Affretta il passo e finalmente giunge nel riparo della cucina. Qui apre il frigorifero e un lampo la acceca, gli occhi abituati al buio ci mettono qualche istante per mettere a fuoco la bottiglia dell’acqua dalla quale beve direttamente, con una lunga sorsata.
Torna la penombra, respira e si guarda intorno. Cammina verso il salotto, si ferma ad accarezzare il cranio calvo di una statuina raffigurante un sorridente e pacioso Buddha, souvenir di un viaggio in India di Andrea. Il contatto con la pietra le trasmette una scossa, d’un tratto si sente più leggera, il brusio nel cervello si placa, una sensazione che è anche un ricordo si fa strada. Guarda fuori dalla finestra il cielo nero, la strada deserta e umida per la pioggia recente. Poi comincia a muoversi e a girare per le stanze, a toccare ogni cosa; vuole sentirsi viva, approfittare di questo momento di pace per rendersi conto di esistere, per scacciare i fantasmi. Sfiora le tende, il televisore, il tavolo, i quadri, gli interruttori, i soprammobili, le foto di Gianni.
Si ferma davanti alla libreria, si china all’altezza di una serie di oggetti collocati ordinatamente in uno scaffale. Una lunga schiera di dischi in vinile. Scorre con il dito lungo le coste delle copertine, dove sono scritti i titoli, ne trova uno, lo estrae lentamente e lo osserva con il brillio dell’emozione: Johan Sebastian Bach, Magnificat.
Maneggiandolo con la cura che si usa per qualcosa di fragile e prezioso se la porta alle labbra e chiude gli occhi.
2.
Uno squillo lancinante la sottrae agli abissi silenziosi del sonno. Il telefono di casa sembra impazzito, con il suono al massimo dell’intensità che la trascina brutalmente nel pieno del reale. Si alza, con la vista offuscata e i movimenti impacciati, si reca in cucina, verso l’infernale congegno che non smette di trillare. Alza la cornetta e sente una voce che le sta dicendo qualcosa. Il suono è confuso, sembra provenire da molto lontano, da un altro pianeta. Lentamente, come l’acqua di uno stagno che si placa dopo che vi è stata gettata una pietra, le parole si fanno più nitide.
– Mà! Mi senti?
– Andrea… – dice lei con voce impastata – Scusa, stavo dormendo.
– A quest’ora dormi ancora?
– Si, stanotte mi ho preso sonno tardi.
– Ho un paio d’ore libere, ci vediamo a pranzo da te, okay?
Prima che possa aggiungere qualcosa la linea si interrompe. Stacca il telefono dall’orecchio e lo guarda per qualche istante come se si aspettasse delle risposte dall’oggetto, poi lo posa ancora frastornata. Da un’occhiata alla sveglia, le dieci. Possibile che abbia dormito così tanto?
Si mette a sedere e si strofina il viso con le mani, nel contempo le viene in mente che con il figlio in arrivo sarà meglio uscire a fare un poco di spesa. Così si alza e percorre la casa verso il bagno. Tutto alla luce del giorno è come trasfigurato; i muri e le suppellettili, che nella notte parevano irradiati di energia benigna, ora sono tornati a essere oggetti privi di anima, semplice arredamento. Sulla poltrona del salotto è poggiato il disco del Magnificat.
Si veste ed esce incamminandosi verso il più vicino supermercato. Lungo la strada le tornano di nuovo in mente le immagini di qualche ora prima; la sua insonnia, il suo stato d’animo prima inquieto e poi sempre più energico. Il disco di Bach: quella testimonianza di un tempo lontano che aveva preferito celare con cura, una ferita mai rimarginata che viene da un passato ancora troppo presente.
Mentre pentole e padelle sono sul fuoco prepara la tavola tirando fuori una tovaglia profumata di bucato, due tovaglioli di stoffa ricamati a mano, bicchieri di delicato cristallo, piatti decorati e il cesto in legno con il pane fresco di forno. Adora le cose fatte con amore, nella sua vita ha sempre compiuto con naturalezza gesti ben ponderati, si è sempre espressa con voce pacata e gentile, non ha mai compiuto un gesto di troppo. Lei e Gianni hanno condotto un’esistenza normale, non particolarmente agiata ma senza alcuna mancanza. Lui lavorava come operaio nella grande fabbrica della città e il suo stipendio bastava appena al mantenimento della moglie e di Andrea. Questo però non era mai stato un problema, lei sapeva amministrare con oculatezza il danaro che egli portava a casa contornando le loro vite di cose belle. E’ una donna di buon gusto, questa è l’opinione di tutti quelli che la conoscono, anche se lei a volte ha l’impressione che le persone la trattino un po’ come un soprammobile, piacevole a vedersi ma altrettanto facile a ignorarsi.
Passate da qualche minuto le tredici suona il citofono, apre il portone e dopo poco si ritrova davanti suo figlio che entra e la bacia energicamente sulla guancia. Sembra particolarmente su di giri e si fa subito strada verso la cucina.
– Che profumo, sono affamato! Allora, come stai?
– Sto bene. E tu? Come ti trovi col nuovo lavoro?
– Mi piace, il salario è buono ma c’è da fare, ci sono tante responsabilità. – dice Andrea accomodandosi a tavola.
– Infatti sono più di dieci giorni che non ti vedo…
– Dai mà, sai che quando posso mi faccio vivo, – dice lui mentre attacca a mangiare con foga – in questo periodo è un gran casino, ci sono stati dei guasti e ho dovuto seguire tutte le riparazioni. – Ma si, non preoccuparti. Solo è strano non vederti per tanto tempo, prima eri sempre qui. – Lo so, ma ero anche spesso senza soldi, ora per fortuna le cose vanno meglio. E a quarant’anni suonati era anche l’ora! Tu che combini? – chiede Andrea con la bocca piena, come se non potesse concedersi un attimo di tregua tra un boccone e l’altro.
– Niente di speciale. Sto dietro alla casa, vedo Greta, ogni tanto vado a camminare e la sera guardo un film o leggo. Passo le giornate così, tuo padre mi ha abituata a essere abitudinaria…. E Sara cosa dice? E’ contenta per il tuo lavoro?
– Sara non è mai contenta, le manca sempre qualcosa. Se la portassi a fare il giro del mondo il giorno dopo mi chiederebbe il giro della luna.
– Magari le manca un bambino, io credo…
– Ma quale bambino mà? – la interrompe infervorato Andrea – Non vedi in che mondo viviamo? Ora mi va bene ma con l’aria che tira potrei rimanere disoccupato da un momento all’altro, e chi lo mantiene poi questo figlio? Lei, che sta tutto il giorno a far nulla davanti al computer?
– Va bene, scusa, dicevo così per dire, chiaramente la scelta la dovete fare voi.
– Lo so che ti piacerebbe un nipotino di cui prenderti cura, ma non è il momento. E poi non so neppure se Sara sarebbe pronta, ha troppi grilli per la testa. Vorrei che ti somigliasse, tu hai il tuo mondo, ti sei fatta bastare la vita che hai vissuto.
– Si, ma ogni tanto penso…
– Sara invece è un’egoista, – continua Andrea interrompendo di nuovo la madre – è diventata apatica e pensa solo a passare il tempo su internet. Non è più la persona che ho sposato.
– Forse si sente sola – dice lei mentre osserva il suo orologio a muro di terracotta a forma di gatto.
– Sola? – sbotta Andrea – Ma che sola? Ha tutte le distrazioni che le servono! Il problema è che oggi nessuno è mai contento, qualsiasi vita a un certo punto ci sembra noiosa e ne vorremmo un’altra.
Andrea rimane col cibo in bocca senza dire nulla per qualche istante, poi ricomincia a masticare e a parlare allo stesso tempo.
– Il fatto è che… la amo e vorrei fosse fiera di me. A volte mi sento come se fossi in gara con me stesso per ottenere la sua stima. Spero che prima o poi la smetta di essere insoddisfatta e mi veda finalmente per quello che valgo.
Lei rimane in silenzio e lascia che il figlio finisca tranquillo di mangiare. Dopo pranzo Andrea si dirige in salotto e si accorge del disco del Magnificat poggiato sulla poltrona.
– Ascolti roba seria, eh? – dice sorridendo.
Dopo averlo guardato un po’ lo posa sul tavolo, si siede in poltrona e in pochi minuti si addormenta. Lei si affaccia nella stanza e guarda il figlio sonnecchiare scomposto, con una gamba sul pavimento e l’altra sul tavolino. Finalmente quell’uomo impetuoso e inquieto – alto, robusto, con ispidi capelli neri e occhi profondi dello stesso colore – si gode un attimo di pace. Lo rivede bambino, quando lo aspettava fuori da scuola e lo scorgeva uscire timidamente, sempre solo e con il volto teso, l’espressione di uno che deve sempre guardarsi alle spalle.
Dopo circa un’ora Andrea si sveglia, la saluta velocemente ed esce, promettendole di chiamarla presto. Lei siede sulla poltrona che il figlio ha lasciato libera, nella stoffa c’è ancora il suo calore, sembra che le stia abbracciando. Da sempre è apprensiva nei suoi confronti, sin dai tempi della scuola. E’ stata testimone di storie d’amore finite male per la sua gelosia, di innumerevoli lavori cambiati per un carattere difficile che non lo fa andare d’accordo con colleghi e superiori. Qualche anno addietro ha però trovato un impiego come magazziniere per una ditta di materiale elettrico e in questa situazione è riuscito finalmente a mettere da parte le asperità del suo carattere imparando i trucchi del mestiere meglio di chiunque altro. Di conseguenza in tempi recenti ha ricevuto la proposta di diventare capo magazziniere e monitorare altri depositi della stessa ditta. La promozione lo ha reso felice, forse per la prima volta in vita sua Andrea sente di essere diventato una persona stimabile e capace. Col tempo ha anche cominciato ad aprirsi con la madre, cosa inconcepibile anni prima, quando era un ragazzo taciturno e introverso. Lei ha il potere di metterlo a suo agio ed egli ne approfitta per sfogarsi tutte le volte che ne sente il bisogno. La donna si stupisce però di quanto poco al figlio interessi conoscere quello che lei pensa nel profondo. Andrea non le chiede quasi mai come abbia vissuto la sua vita, quali siano state le sue gioie e i suoi dolori, come si senta da quando è rimasta sola. Da lei è abituato a essere ascoltato, capito e accudito, per lui è solo la sua vecchia mamma, ciò gli basta. Sperare che possa sfuggire ai meccanismi dell’abitudine è pura utopia.
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