“Autogrill” di Michele Lamacchia – #dopolavoroletterario n.6
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“Autogrill” di Michele Lamacchia – #dopolavoroletterario n.6

Conosco poco Michele, ha frequentato un mio corso a marzo. Michele illumina quando scrive. Illumina una storia. Lo immaginavo, mentre leggevo le sue cose, luminoso e titubante, e mi colpiva questo fatto di sapere dove arrivare ma avere come delle ritrosie che rendono uno scrittore reale. Questo romanzo che Michele sta finendo ha una luce dentro che è composta dalle diverse voci che lo attraversano.  (Foto dell’autore:“L’attesa consuma – presso Carino Scalo, 1999”)

Michele Lamacchia

AUTOGRILL

La straordinaria storia di Rocco Pantano.

«Masto Rocco», chiese Santo, «ma voi ci credete nel duemila?», come se si trattasse di un demonio, di una forza magmatica soprannaturale.

Ogni tanto qualcuno saliva al Montedoro e si fermava a cazzarare. C’erano le birre fresche nel frigo e qualche altra cosa tipo taralli, caramelle e cingomme sul banco e, solo alla mattina o dopo pranzo, la macchina del caffè in pressione.

Masto Rocco Pantano era uomo di vita e profonde conoscenze. Per l’umanità nei dintorni era una specie di sapiente saggio: un “intellettuale”, si direbbe. Un intellettuale fuori dai circuiti, uno che sa interpretare i fenomeni e li rende lucidi e comprensibili alle persone della valle. Uno a cui chiedere le cose. Uno, masto Rocco, che ascoltava la radio, leggeva i giornali, i libri, faceva le ricerche, faceva.

Tra le persone che venivano spesso su c’erano pure questi signori cafoni di Carino scalo. Venivano e si stavano le ore sane. La nullafacenza. Santo Mezzacapa era uno dagli occhi di faina, stretti e piccoli, con le palpebre sempre come chiuse, come a guardare come fregare il prossimo, come procacciarsi qualcosa, qualsiasi cosa. I capelli spettinati e le basette lunghe. Un giorno lo vedevi a fare il ferro, un altro a truccare una macchina, un giorno a portare frighi vecchi, un altro vendeva scarpe imitazione Tod’s in stock o felpe Fruit of the Loom.

Santo era l’inquietudine e aveva una passione più calorosa delle altre, insieme alla volontà di arrabattarsi: il Potenza calcio, ovvero lo Sport Club. La squadra nobile dai colori rosso e blu.

Quel giorno stava sostituendo (o così pareva) il bombolaio di zona, insieme a Rinuccio il grosso. L’Ape aveva salito la strada a due all’ora, portando alcune centinaia di chili di gas in bombole dondolanti. Venne lasciato al ristoro, dove c’era un minimo di ombra, tra il carrubo e il parcheggio del bar.

«Secondo te», Rocco masticava aria, guardava attraverso i pensieri, «che cosa succederà nel duemila?», gli chiese di risposta.

Santo trattenne il fiato, preso alla sprovvista. Rinuccio, l’altro, il grosso, pensò di sorridere, facendo quello che capisce. Però guardava a terra, la polvere e i piedi nelle scarpe ex-di-vernice troppo strette. Filippo, il ragazzo, invece, seguiva tutta la scena dal suo punto equidistante, prendendo appunti per il suo libro. Segnava dettagli, descriveva particolari, disegnava certe piccole cose.

I piedi nelle scarpe strette, gli occhi piccoli da faina.

«Secondo me», si rischiava di fare la figura dei cretini. E Santo si rispose stringendo gli occhi un poco di più, faina che non vuole essere fregata: «E secondo me qualche cosa deve succedere!», Filippo scrisse qualcosa come un appunto in fretta, «Alla televisione hanno detto le peggio cose!»

«Per esempio. Facci sentire», chiese Rocco. Rocco che aveva insegnato a Filippo a leggere e scrivere. Rocco che diceva le cose come stanno. Rocco che due anni prima a Matera aveva avvicinato De Mita, presidente del consiglio, all’inaugurazione dell’anno accademico e gli aveva chiesto nei denti se si era arricchito con il terremoto.

«Per esempio», disse Santo tutto d’un fiato «che tutte le cose elettriche, tutte le cose elettroniche, le antenne, i motori, i semafori, i computer, i microfoni, gli orologi: tutto improvvisamente smetterà di funzionare. Si bloccherà».

Chiuse la bocca a culo di gallina, il culo strinto di chi sa di averla sparata.

«E come è possibile?», chiese Rocco accigliandosi un poco, «Su quali basi?»

Santo mosse un poco la testa e cercò con gli occhi Rinuccio, a chiedergli soccorso. Quell’altro vibrò un paio di secondi.

«Sì, è vero, l’ho sentito anche io», con una mano tozza e grossa, senza polso attaccato, fece un gesto come a indicare tutto intorno «anche la radio, la benzina, la macchina del caffè!». E dopo tacque, volendo scappare via.

Filippo sul suo blocco disegnò, in piccolissimo, l’Ape del bombolaio con una grossa nuvola spumosa alle spalle. Guardò in alto e vide che non c’era nessuna nuvola in cielo, solo una tela azzuro-ghiaccio. Corrucciandosi, cercò di spiegare a se stesso perché avesse fatto quella massa bianca, come un pensiero ingombrante o una visione. Non trovò giustificazioni immediate, si limitò ad appuntare in grande “Pensieri: inizio? fine?”.

Rinuccio il grosso era un parassita che viveva del sussidio di disoccupazione. Non aveva mai fatto nulla di nulla nella sua vita, se non il servizio militare negli alpini, in Veneto. Non faceva esercizio fisico, nemmeno le scale, mangiava e beveva, beveva e mangiava. E dormiva. Si riteneva troppo debole per lavorare, troppo inaffidabile per trovarsi una donna. Si riteneva troppo stupido per capire e perciò non si sforzava nemmeno di chiedere, né di leggere o di studiare.

Non si sforzava di cercare lavoro perché nessuno glielo avrebbe dato proprio in quanto stupido e debole e non abituato, non lo cercava perché altrimenti avrebbe perduto il sussidio, non cercava nemmeno una ragazza perché non aveva un lavoro e senza soldi non poteva portarla al cinema, o a mangiare fuori, o comprarle un anello o una borsa. E se invece voleva una donna avrebbe dovuto lavorare per non sfigurare e non poteva lavorare perché.

Una fatica.

Aveva interrotto il cerchio anni prima, quando aveva lasciato una bella ragazza bruna di San Brancato che, lavorando per un ingrosso di frutta e verdura, aveva anche una paga decente che gli pagava tutto lei.

Quando la lasciò non ebbe rimpianti, né rimorsi. Solo una tensione di caldo che lo abbandonò scemando piano piano, e fu subito sereno e tranquillo: poteva tornare a non fare niente e non pensare a niente.

Rinuccio, dal suo punto di vista, era solido. Sapeva che il mondo intero andava allo sfascio, alla deriva morale, che i valori su cui si era formata la società, valori come la famiglia, la fede, la patria, stavano vacillando. E tutti erano complici. Tutti. Sarebbe arrivato un eroe, un nuovo Messia e avrebbe mondato tutta quella sporcizia. “Il ladro notturno”: «Noi non sappiamo quando arriverà il ladro!». Prima o poi. Lo ripeteva spesso a se stesso.

«A te tengo!», gli disse la mattina Santo. Lo andò a chiamare alla casa, urlando sotto la finestra. Era quasi ora di pranzo ma dormiva ancora.

«Lo vuoi fare un lavoro?», gli chiese, quando quello si affacciò.

«Ueh, Sa’. Mi sto alzando mo», disse scocciato e pigro, «Fammi prendere il caffè».

«E scendi, me’! Il caffè te lo pago io. A te ti faccio guadagnare una cosa di soldi».

«No, ma io», Rinuccio cominciò a vibrare, pensava nell’ordine “Ma perché mi sono alzato stamattina?”, “Mai sia qualcuno mi vede mi offrirà altro lavoro”, “Il sussidio”, “Sto stanco”, “Mo dico che tengo da fare”, “Mi sto, così quello si scoccia e se ne va”.

Non finì il pensiero che Santo stava già dietro alla porta a bussare come i carabinieri.

«Perché non aprivi, Ri’?», gli chiese indagatore.

«No, è che non mi sto sentendo», gli disse sedendosi in pizzo al divano, con la mano in testa, “Ma perché mi sono alzato stamattina?”, odore di mutande non proprio fresche e sudore di sonno estivo, «Stavo pure facendo un sogno brutto…»

«Eh, infatti», affermò Santo, infilandogli di forza le calze di cotone bianche e le scarpe ex-di-vernice nere, «Ho sentito dalla finestra aperta che gridavi».

«Ah», Rino diventò subito rosso, tremò le gambe e le braccia, pensava al sogno, a situazioni da sistemare una volta per sempre «Dov’è questo lavoro?»

«Sopra a Montedoro, alla benzina di masto Rocco».

Quelle informazioni gli arrivarono come aghi nelle tempie. Si fermò a pensare muovendo dita grasse su ginocchia nude dai peli radi, stringendo labbra, frenesia.

«Fammi mettere un pantaloncino», lo indossò con tutte le scarpe.

Rinuccio aveva delle certezze (poche), poche sicurezze alle quali si appoggiava: Renato Zero il cantante, i film di Alberto Sordi e Tinto Brass (non insieme) e la devozione per la Madonna, per la quale recitava rosari tutte le sere con radio Maria. Radio Maria era sempre accesa, in camera sua. Sempre. Anche durante i film di Tinto Brass: una specie di sottofondo gentile.

«La radio accesa!», lo avvertì Santo, uscendo.

«Tu non ti preoccupare: sta la casa», chiuse pensili e cassetti in cucina, prese qualcosa che nascose sotto la maglia e lo seguì fuori dalla porta.

L’Ape era un forno e in due non ci si stava.

«Non è che scoppia qualcosa?», chiese Rinuccio. Santo rise e sgasò. Per strada lo rassicurò sul lavoro da fare: niente di faticoso, solo segnalare una deviazione alle macchine che salivano sulla provinciale, semmai servisse. Rino sospirò, dondolando tra la portiera tenuta chiusa con un ferro filato e il gomito di quell’altro che alle curve gli entrava nel fegato.

Sotto la pensilina, Rocco si pulì le mani strofinandole su uno spigolo. Elaborava una questione da fare con quei due. Filippo posò la penna sul blocco, inspirò l’aria elettrificata, avvento di cassandre.

#dopolavoroletterario è la rubrica riservata a chi ha seguito uno dei miei corsi. Per partecipare basta inviarmi un testo, magari frutto del lavoro svolto insieme. Per conoscere le novità in arrivo scrivimi o iscriviti alla mia newsletter).

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