“FSE” di Franco Chiarpei #dopolavoroletterario n. 4
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“FSE” di Franco Chiarpei #dopolavoroletterario n. 4

Franco Chiarpei  ha lavorato per “Interview“, rivista fondata da un tale Andy W.. Franco ha girato tutto il mondo, e in parte continua a farlo.  A un certo punto della sua vita ha scelto di vivere in Puglia che venera come un’edicola sacra scovata per caso, e di iniziare a scriverla. Ci siamo incontrati, e il suo progetto mi ha convinta. Lo sguardo narrativo di Franco è rivelatore di stupore e di bellezze inattese. “FSE” è il primo racconto di questa serie di storie sulla Puglia: inconsuete serigrafie letterarie, mappe inesplorate in cui risplende la meraviglia. Buona lettura.

( L’immagine è dello stesso autore).

FSE

di Franco Chiarpei

Fermo davanti al passaggio a livello lasciavo che una brezza mattutina mi accarezzasse, trasformando quella breve attesa in un inaspettato piacere. Poi, annunciato da una sirena rauca arrivò il treno. Fuori dai finestrini abbassati degli unici due vagoni, motrice e passeggeri, sventolavano tendine di stoffa marrone che ricordavano le braccia di persone che salutavano festose.

Questo episodio, fugace e apparentemente senza importanza, mi ha portato a distanza di mesi, a progettare un viaggio da Cisternino a Gagliano del Capo, nel Basso Salento, all’andata via Zollino, al ritorno via Novoli.

Le Ferrovie del Sud Est, malgrado siano in via di ammodernamento, utilizzano ancora su alcune tratte vecchi treni diesel, costruiti nel dopoguerra dalla Breda e dalla FIAT per i percorsi a scartamento ridotto delle linee ferroviarie pugliesi.

Partendo da Bari, attraversano la Murgia e la Valle d’Itria dividendosi, nei pressi di Lecce, in due diversi tragitti, a Ovest e a Est, che si ricongiungono a Gagliano, distante solo qualche chilometro da Santa Maria di Leuca, l’estremo punto meridionale della penisola salentina. I modelli delle carrozze negli anni sono cambiati ma, salvo rare occasioni, i colori sono rimasti gli stessi: bianco e azzurro, con una linea rossa che corre sottile lungo i finestrini per poi allargarsi in una fascia frontale dove sono collocati i fari e il nome della fabbrica costruttrice, inciso all’interno di una vittoria alata.  Questa livrea ha agito sulla mia immaginazione da richiamo, come il piumaggio degli uccelli durante la stagione del corteggiamento.

Per preparare il viaggio sono tornato diverse volte nella piccola stazione di Cisternino, un locale semivuoto affacciato sui binari, dove lavora un’impiegata molto gentile che svolge le mansioni di bigliettaio, controllore e capostazione. Studiare insieme a lei i treni da prendere, gli orari e le coincidenze, era diventato una piacevole interruzione alla monotonia della sua giornata. Il giorno della mia partenza si era truccata più del solito.

Il treno delle FSE per Lecce Zollino, un Breda AD 59 atteso alle le 8:40, arrivò puntuale, ero l’unico passeggero. Seduto, con l’animo colmo di quel senso di libertà che l’inizio di ogni viaggio suscita, incominciai a guardarmi intorno: i sedili in Skai marrone, le pareti rivestite in fòrmica gialla, le tendine parasole beige. Le maniglie, i portapacchi e i serramenti, erano avvitati uno per uno con viti a stella, quando la porta si chiudeva il rumore era un colpo secco, l’aria odorava di ferro.

Boschi di querce, vigneti ordinatamente disposti in bassi filari, colonie di fichi d’India, muretti a secco: il veloce scorrere del panorama era velato dal vetro che anni di intemperie avevano reso opaco. Arrivò il controllore, vestito in borghese, che dopo aver colto il mio interesse per la motrice sulla quale stavamo viaggiando, mi portò con sollecitudine nella cabina del macchinista, anche lui in abiti civili, dove la strumentazione di guida era più simile a quella del Nautilus di Jules Verne che a quella di un treno. La scocca che conteneva i tachimetri e le manopole in bachelite, un pezzo da collezione, era stata dipinta negli anni con diversi strati di vernice bordeaux, non sempre uguali, e avrebbe potuto trovare posto sui banchi del marché aux puces di Parigi.

– Questa motrice è stata prodotta dalla Breda alla fine degli anni ‘50 soltanto in trenta esemplari, dal numero 51 all’ 80. Questa è la 59. – Mentre la linea dei binari si srotolava davanti a noi, ascoltavo il macchinista parlare, la fiducia da lui riposta nel treno era simile a quella di un pastore nei confronti del suo vecchio cane.

Tra macchinista e controllore correva familiarità. La stessa che riscontrai esserci alla fermata di Pascarosa, un edificio isolato in mezzo agli ulivi, tra il capostazione e un anziano signore che aveva chiesto, prima di salire in treno, di andare in bagno. Perdemmo qualche minuto; in attesa che il vecchio ritornasse, macchinista e controllore si sporsero fuori dal finestrino per scambiare qualche battuta col capostazione, in un dialetto stretto ma sufficiente per comprendere quanto la ferrovia legasse personale e viaggiatori in una specie di parentela, nata negli anni lungo i binari, dove tutti si conoscevano e tutti avevano qualcosa da dirsi. Con un semplice – Via! – si ripartì, i pochi passeggeri che salirono dovettero attraversare con ampie falcate le rotaie, in queste stazioni non esistono sottopassaggi.

Dal mio scompartimento, ormai cosparso di giornali, taccuini e occhiali, guardavo il paesaggio macchiato dagli alberi di mimose e di biancospino, e i prati di calendule che, come fiumi gialli, esondavano oltre i tratturi. Recupero, Galante, Femmina Morta, le contrade della Valle d’Itria si susseguivano; insieme ai loro strani nomi riaffioravano le persone che quasi quotidianamente incontravo in quelle campagne: nei piccoli negozi di alimentari, crocevia di giocatori di scopa, o nelle masserie, dove i contadini insistevano sempre per farmi assaggiare qualcosa.

Superata la linea di confine che corre tra Taranto e Ostuni, la “soglia messapica”, lo scenario cambia, i boschi e le colline si diradano, la terra rossa e scura della Murgia, nell’alto Salento diventa calcarea e grigia. Prima di Novoli il treno si fermò in mezzo ai campi, in una di quelle soste apparentemente senza motivo, in cui mi chiesi quale arcano richiamo seguissero le nuvole che vedevo affrettarsi verso Oriente, e sotto quali latitudini si sarebbero infine radunate. Ripartimmo.

A Lecce la coincidenza per Gagliano attendeva al secondo binario, la stazione era affollata di studenti, di giovani africani e di contadini venuti in città che occuparono, in pochi istanti, i posti a sedere del nuovo treno, un Breda AD 79, riempiendo l’aria di voci animate e accenti sconosciuti. – Padre nošciu… ma lìbberane de lu male… e cussì ssia. – al mio fianco, il sommesso mormorare di una vecchia vestita di nero si perdeva nel chiasso del vagone.

Nel corso dei secoli Magrebino, Greco ed Ebraico si erano mescolati, dando vita a una Babele di lingue, dialetti e riti, mai abbandonati, e rivestendo questa “Terra di mezzo” di un’aura magica e sacra. Gli sporadici paesi che riuscivo a individuare mi venivano segnalati in lontananza dalla presenza dei cipressi lungo i viali dei cimiteri, il resto erano ville isolate, antiche masserie, capannoni industriali; di fronte a uno di questi, bloccati in quell’immobilità incomprensibile a noi umani, stavano fermi due cavalli.

Per lavori lungo la linea, a Poggiardo si dovette scendere e salire su un pullman di collegamento, a Tricase avremmo ripreso il treno per Gagliano. In corriera, circondato dalle promesse di eterno amore scarabocchiate dagli studenti sul retro dei sedili, riflettevo sul significato di questo viaggio e sulla sua lentezza, che favoriva momenti di contemplazione e permetteva alle visioni e agli incontri di raggiungere le regioni più intime. Assorto in questi pensieri raggiunsi la stazione di Tricase, non prima di avere notato, disposto in bell’ordine, il gruppetto di statuine e simboli che decoravano il cruscotto di guida dell’autista, una Madonna di Lourdes, un Padre Pio, un cornetto rosso portafortuna, un San Cristoforo, una foto di famiglia e, appeso allo specchietto retrovisore, un crocefisso e uno scudetto del Lecce.

A Gagliano del Capo, fuori dalla stazione, sostai qualche minuto sotto una luce accecante a osservare il cielo terso e la strada che mi stava di fronte, dove un cagnolino marrone sembrava aspettarmi. Con la prospettiva di mangiare qualcosa ci avviammo insieme verso il centro abitato, il cane faceva strada. Ai piedi di un monumento in Piazza Bitonti, la famiglia nobile locale, ci dividemmo un sandwich che mi ero portato da casa mentre una vecchia, a cavallo di un motorino, attraversava la piazza, rompendo il silenzio. Ascoltando l’eco di quel rumore che si perdeva nei vicoli e osservando le imposte delle finestre chiuse e le panchine vuote, ebbi l’impressione che il paese fosse rimasto disabitato, come un set cinematografico sostenuto da impalcature, dove ormai non si girava più.

Lasciatomi alle spalle quelle case sgombre di anime, lungo la strada che portava alla stazione mi soffermai qualche minuto all’ombra di due alti eucalipti, alberi la cui corteccia, sfogliandosi in larghe porzioni cascanti, riduce i tronchi a brandelli, quasi a lasciare le piante scuoiate che adesso, viste dal basso, apparivano come ricoperte di stracci.

In attesa che giungesse il treno scambiai due chiacchere con il capostazione che con, dovizia di particolari, mi spiegò il funzionamento degli scambi, dei semafori e dei passaggi a livello, tutti comandati a mano mediante un complesso sistema di cavi; ingranaggi, leve e manopole, collocati lungo il muro della stazione e ricoperti da uno spesso strato di grasso, avevano più di cent’anni. Gagliano era una delle poche stazioni ad avere ancora gli scambi azionati manualmente, a breve sarebbe diventato tutto elettronico. Differenziali e catene avrebbero lasciato posto a tastiere e schermi, l’acuto stridio delle ruote dentate sotto sforzo si sarebbe perso nell’oblio, sostituito da mute spie luminose.

Chi risale il Salento percorrendo la dorsale occidentale in direzione di Nardò Novoli, può constatare quanto siano avanzati i lavori di ammodernamento della linea ferroviaria: l’armamento, così è chiamata la combinazione dei binari, è quasi totalmente rinnovato e consente il transito a treni più veloci, come quello sul quale adesso mi trovavo, un ATR 220 di produzione polacca costruito nel 2008, disegnato con linee aerodinamiche e dal muso un po’ corrucciato, tipico degli scooters e di certe macchine sportive. Qualche sedile più avanti, lungo il corridoio, notai una valigia di pelle marrone. Del suo proprietario spuntava solo il cappello e di tanto in tanto la mano che stringeva la maniglia. La corda che avvolgeva quel bagaglio dall’aspetto consunto mi fece pensare alle valige degli emigranti che da queste stazioni partivano, invasi di speranze e sgomento, per l’America del Sud, per il Canada o l’Australia. Quel semplice pezzo di spago, tirato e annodato con l’aiuto della moglie nella cucina di casa poche ore prima dell’addio, avrebbe protetto averi e ricordi, custodito in ogni singolo nodo una preghiera, un voto, una sorta di rosario di canapa.

Il veloce fluire del paesaggio s’interrompeva in corrispondenza di piccole stazioni perse in mezzo alla campagna, edifici risalenti al primo ‘900, alcuni abbandonati, come quello di Ugento, abitato solo da fichi d’India e rovi. Verso Nardò le rotaie incominciarono a moltiplicarsi e incrociarsi, annunciando l’imminente arrivo in una grande stazione, che adesso appariva imponente, rosa e circondata da palme. – A Nardò Centrale confluiscono tutti i treni provenienti da Zollino, Gallipoli, Casarano e Novoli – mi diceva il controllore paludato come uno steward – Un tempo c’era anche una rimessa per le locomotive –.

Nella comodità della poltrona ascoltavo assopito i nomi delle stazioni, Lecce, Manduria, Francavilla Fontana. Attutita dalla sonnolenza la voce dell’altoparlante sembrava arrivare alle mie orecchie da lontano, poi, improvvisamente, Cisternino.  Casa.

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