02 Gen L’anatomia dell’amore di Francesca Bertoni – Dopolavoro Letterario n. 70
Certe storie cominciano danzando, l’ho scritto più volte in Una storia tutta per sé e sono pronta a ripeterlo altrettante. Per esempio ogni volta che leggo Francesca Bertoni una parte di medanza. Danza con la sua voce, magnetica e sottile, lieve e faticosa, una salita e una discesa. Quando leggo Francesca, vedo la storia così come la immagino nella mia testa; è una scrittura cruda e gentile quella delle voci destinate a diventare storie amate da lettori e lettrici
L’ANATOMIA DELL’AMORE_ un racconto di Francesca Bertoni
Luisa chiude la porta di casa spingendola con un fianco, allunga un braccio verso la parete per accendere la luce e resta ferma immobile all’uscio con lo sguardo dritto davanti a sé, come a guardare la sala di casa sua per la prima volta. Poi si sfila il lungo cappotto di lana e lo appoggia pensierosa sul divano, e così fa con la borsa. Va al mobile “della scrittura” e da un cassetto prende un paio di fogli bianchi e dal portapenne stracolmo sceglie una penna blu, poi si siede al tavolo della sala, si accende una sigaretta, e comincia a scrivere.
GennAmoreMio,
è lecito scrivere ai morti? O sono del tutto pazza? È che è successa una cosa del tutto incredibile e provo il fortissimo desiderio di raccontartela, ma non come quando ti parlo un poco al cimitero davanti al tuo sorriso gelato ed eterno e impassibile e sempre mi sembra che tu sia ormai disinteressata alle cose dei vivi. Io sono quasi sicura che questa cosa che vado a raccontarti l’hai fatta accadere tu. Tu che mi chiedevi ogni giorno se ti amavo e che quando ti rispondevo che sì, ti amavo oltre misura, tu storcevi un po’ la bocca come di chi non crede del tutto all’altro. Tu non credevi mai alle mie dichiarazioni d’amore, e queste, davanti alla tua perplessità, mi diventavano spente e pallide e io mi rompevo la testa chiedendomi come fare per dimostrati il mio amore…
Ma adesso, dopo ciò che è accaduto, mi è tutto così chiaro e vivo che mente sto scrivendo ho sul volto un sorriso da parte a parte e, da quando te ne sei andata, è forse la prima volta che mi sento felice.
Sono le undici di sera, e sono tornata da un paio d’ore dal pronto soccorso, dove mi sono recata perché avevo un dolore fortissimo al costato e non riuscivo a respirare bene. Devo dirti la verità: ci ho messo un po’ prima di decidere di entrare da quella porta. Ero investita di ricordi come fossero ancora lì tutti vivi tutti interi – io che corro sugli scalini e spingo il maniglione antipanico con forza e l’aria caldissima che mi investe il viso, e la puzza di persone ammorbate in attesa di esser curate e in lontananza le urla disperate di tua madre e un’infermiera che mi blocca sulla porta e io che dico il tuo nome e il suo volto che cambia e s’addolcisce improvvisamente come una sorta di madonna della pietà e le sue dita che stringono il mio braccio mentre m’accompagna verso il pianto di tua madre e il tuo corpo massacrato dalle ruote e dalle lamiere del camion da riconoscere.
Dicevo, ci ho messo un po’ prima di entrare in pronto soccorso: mi sono seduta sulla panchina esterna e, a sfregio del respiro quasi rantolante, mi sono accesa una sigaretta. Poi, sono entrata in ospedale e mi sono avviata al triage dove ho riferito i sintomi. Un infermiere giovanissimo mi ha preso una provetta di sangue poi un’altra infermiera mi ha accompagnato alla sala radiografie, hanno voluto farmi una tac. Sul duro lettino del macchinario, coperta solo della canottiera, e sovrastata dal grande cerchio della macchina, mi è arrivato un rigurgito di pianto, come fossi tornata bambina e avessi avuto bisogno della mamma. Ma sapevo che non era di mia madre che avevo bisogno: io avevo bisogno di te, Genn piccola mia, avevo bisogno che ci fossi tu, e allora mi sono chiesta se è vero come dicono tutti 8ma come lo sanno, santoddio??) che i nostri cari morti ci sono sempre vicini e se tu non fossi in quel momento proprio lì con me a vedere e sentire tutto e soprattutto a tenermi una mano. Una voce metallica mi ha interrotto i pensieri. Diceva: trattenga il respiro e poi respiri.
Trattenga il respiro
Respiri
Trattenga il respiro
Respiri
Trattenga il respiro
Respiri
E intanto il grosso cerchio vorticava sopra il mio bacino e sopra il mio torace spostandosi dal basso all’alto e viceversa.
Finita la tac mi hanno fato attendere il referto e il colloquio con la dottoressa in uno stanzino claustrofobico dove c’era posto giusto per la mia sedia e la poltroncina dove c’era una signora anziana attaccata a una flebo. Credo soffrisse di demenza perché ripeteva a cantilena aiuuuutoooo aiuuuuutooo con voce flebile ma nessuno sembrava darle retta. La cantilena della vecchina mi è entrata nelle orecchie e poi è scesa giù giù giù agli inferi dei miei pensieri e naturalmente mi sono chiesta se tu avessi gridato aiuto, da sotto al camion, o se fossi già morta o casomai incosciente.
Grazie a dio un’infermiera mi ha interrotto i pensieri e mi ha portato dalla dottoressa, una giovane donna molto gentile che mi ha fatto accomodare e prima di cominciare a parlarmi si è bevuta un sorso d’acqua da una bottiglietta, come se quello he aveva da dirmi avesse bisogno di prendere un attimo di tempo in più. Aveva il referto in mano e mi ha guardato dritto negli occhi – i suoi erano azzurro languido – e ha cominciato a parlare piano piano, come se io fossi una straniera e lei dovesse spiegarmi qualcosa di molto difficile.
Mi ha detto che avevo tutte le costole del costato rotte, e che il cuore, avendo spazio in più, mi era cresciuto di circa nove centimetri e stava battendo contro la muscolatura, non avendo più la gabbia toracica a proteggerlo, mi disse che avevano pensato di farmi vedere da un cardiologo ma che avrei dovuto attendere in astanteria fino al giorno dopo, o tornare di mia sponte, perché il cardiologo non era di turno quella sera. Mi chiese se fossi caduta o cosa fosse accaduto per rompere tutte le costole e io le ho risposto che non era accaduto nulla.
Nulla, dottoressa, mi sono solo rotta tutta quanta mesi fa, quando Genn se n’è andata e l’abbiamo chiusa in una bara e io sono tornata a casa e tutt’intorno c’erano segni della sua presenza e il cane non ha scodinzolato come al solito e la gatta non ha fatto le fusa e il letto era ancora sfatto dalla notte precedente e la sua risata ancora impigliata nell’aria e l’atrocità del mio dolore rannicchiata sul tappeto del divano con la saliva che si mescolava alla polvere e ai peli degli animali e le lacrime leccate da Perla e il mio rantolo senza parole che spaventava la gatta. E io, dottoressa, quel giorno l’ho salutata come una cretina, con lei che mi chiedeva se l’amassi e io che facevo la stronza e non le rispondevo e mi sono chiusa la porta alle spalle senza dirle che io l’amavo come non avevo mai amato nessuno, che l’amavo senza misura, che amavo tutto di lei, tutto e che l’amavo così tanto che se lei se ne fosse andata io sarei morta e invece dottoressa non sono morta affatto e sono ancora qui con questa ridicola reazione del mio corpo che, son sicura, è perché io non le ho detto che l’amavo quel giorno e adesso il cuore si ribella e rompe la sua gabbia toracica e cresce e cresce per farsi sentire più forte, più forte i suoi battiti, per farsi sentire fino a Genn, perché se ancora batte è solo perché batte per lei.
Però, Genn, non ho mica detto questo alla dottoressa, ho solo risposto pacata che non era accaduto nulla, nessun colpo, nessuna caduta, e che senz’altro sarei tornata in ospedale la mattina dopo per farmi visitare dal cardiologo.
Quando sono tornata a casa, nel silenzio della sera, mi sono seduta un momento sul divano e ho chiuso gli occhi e a quel punto il rumore in sottofondo si faceva sempre più chiaro, era un rumore ritmato, dolce e forte allo stesso tempo, mi faceva vibrare, come i bonghi della nostra canzone preferita, Genn, come le parole
Ti
Amo
Genn
Luisa appoggia la penna, si alza dal tavolo, si toglie le scarpe facendo perno sul tallone, si dirige al giradischi e mette il disco di Cesaria Evoria, parte la canzone Historia de un Amor. Partono i bonghi e poi restano in sottofondo, Luisa balla intorno alla sala, con gli occhi chiusi, le braccia alte e piegate come a tenere un altro corpo.
Sorry, the comment form is closed at this time.