29 Mar “Persistenza” di Barbara Porteri – Dopolavoro letterario n. 67
Il racconto che state per leggere è il risultato spontaneo del recente laboratorio sul racconto percettivo. Spontaneo nel senso che Barbara non la conosco, l’ho vista solo nelle tre lezioni svolte insieme e leggendola ho notato che per ogni stimolo percettivo che le affidavo, lei riusciva a restituirlo in una maniera totalmente personale. Come avviene in Persistenza, dove l’unico paletto che le avevo affidato era: partire dall’olfatto. Buona lettura.
P e r s i s t e n z a
di Barbara Porteri
Avremmo dovuto saperlo fin dall’inizio, quella sera in ascensore, quando entrai di slancio pensando di essere l’ultima a lasciare l’ufficio, e mi scontrai con la tua essenza agrumata, diversa da tutte le altre, distante anni luce dai Calvin Klein e dal Fahrenheit dei miei ragazzotti di allora. Tu mi guardasti un po’ scocciato, dall’alto del tuo incarico manageriale, e poi scappasti via verso l’aeroporto e il volo in business class, mentre io correvo alla fermata del 65, ormai vuota a quell’ora.
Avremmo dovuto capirlo dopo qualche anno, quando ci ritrovammo a lavorare per lo stesso cliente, dopo che tua moglie ti aveva mollato portandosi via il segreto della colonia al cedro bianco e lasciandosi alle spalle un uomo deluso e ferito, che liberava il suo vero profumo: un aroma intenso, di cuoio e nocciole tostate, che in una sola notte mi fece dimenticare i ragazzotti, e nel quale mi tuffai come ci si butta da una rupe, a occhi chiusi, senza preoccuparsi dell’altezza né del tonfo.
Ma soprattutto avremmo dovuto immaginarlo alla fine di quell’estate torrida, mentre io mi crogiolavo nella fragranza delle piogge mattutine e tu invece guardavi già avanti, verso un futuro che non sapevi intravvedere, ma del quale avevi una sola certezza: che non mi ci avresti portata.
E poi avremmo dovuto intuirlo negli squallidi incontri mordi-e-fuggi di quell’anno infernale, nei quali potevo ancora annusare il balsamo della tua pelle e, come una tossica, aspirarne modiche quantità, da dividere con altre, fino a quando non riuscii a sbarazzarmi in un sol colpo di te, delle tue donne, del lavoro, di quella città frenetica per fuggire ai piedi delle Alpi, dove le piazze profumavano di caffè e cioccolato, e la mia tristezza poteva sciogliersi lentamente in una pozza di delusione e rimpianto.
E ancor di più avremmo dovuto sentirlo nel ritorno di fiamma, quella sera a un semaforo di via XX Settembre, quando fiutai di nuovo il tuo odore sopra la puzza di fritto e di gasolio che arrivava dal porto, e ti chiesi che cosa volessi da me, perché fossi tornato a cercarmi, e tu dicesti soltanto che ti era mancato il mio profumo.
E da allora abbiamo continuato a ignorarlo nei molteplici slanci e nelle faticose fughe da una quotidianità che non abbiamo mai condiviso, tra i tuoi modi spicci e i miei musi lunghi, nel sentore di stantio di un presente che non ci appartiene, fatto di attimi che ci ostiniamo a replicare, come attori ormai consumati dalla milionesima recita senza applausi.
Qualche volta abbiamo portato il nostro spettacolo in pubblico, come una coppia qualsiasi. Ricordo la mostra che ti proposi di andare a vedere a Palazzo Forti. Io ci tenevo tanto, tu un po’ meno, ma accettasti di accompagnarmi. Ricordo la mia tensione per il viaggio in autostrada, la stanchezza da mancanza di sonno; mi rivedo seduta in mezzo a una sala, di fronte a tele dai colori potenti, che dalle pareti gridavano la loro sofferenza. E quella scultura così inquietante: una donna sdraiata sulla schiena, con una gamba mozzata, il seno abbondante e un coltello montato al posto della testa. Tu vagavi per le sale, fintamente interessato, ma guardavi l’orologio un po’ troppo spesso, e io sapevo, sentivo, che tutto mi stava sfuggendo di mano. Al ritorno guidasti come un pazzo, non vedevi l’ora di rientrare, di mettere fine a quella giornata che avevi voluto maldestramente regalarmi. Finimmo in un bar sotto casa tua, a mangiarci un panino caldo, che profumava di pepe e formaggio; ordinai un buon bicchiere di vino, per rilassarmi e allontanare la mannaia che mi stava calando sul collo.
Ora che non ho più arti da sacrificare, il tuo cuoio è frusto e le nocciole sanno di bruciato, finalmente abbiamo iniziato a dubitare: forse sarebbe stato meglio non avercelo, il naso, e sarebbe stato più saggio spalancare gli occhi, aprire bene le orecchie, strapparci il cuore a morsi e prenderci a schiaffi piuttosto che sprecare una vita a inseguire una scia di molecole tenaci dietro la quale, come abbiamo ormai compreso, non c’è nulla, tranne la volontà di farci del male.
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