22 Gen “L’ultimo sguardo azzurro di mio nonno” di Grazia Sicolo – Dopolavoro letterario n. 63
Sarà il nome che si dice indichi la strada della nostra storia, per chi ci crede, sarà il destino ma la sua scrittura è grazia pura. Grazia Sicolo, quando si è iscritta al primo livello di “Una storia tutta per sé” non voleva spiaccicare mezza parola scritta ma nemmeno la metà di mezza. Io non ho mai scritto, io non credo che scriverò, ripeteva a lezione. A dir la verità, io le ho creduto. Fino a quando non ha consegnato il primo, poi il secondo e infine l’ultimo esercizio, con una pudicizia che appartiene solo a chi sa da dove vengono le sue parole e quindi a naso le respinge.
Questo è uno degli ultimi lavori che Grazia ha consegnato, scelto non solo da me ma dalle sue compagne di corso, a rappresentare una piccola rivoluzione eseguita insieme: avere la scrittura nel carattere. Buona lettura.
L’ultimo sguardo azzurro di mio nonno
di Grazia Sicolo
L’avvicinarsi inequivocabile della morte di nonno portò nella mia famiglia e nel quartiere un’aria d’attesa irreale e sospesa, come di quando sta per arrivare il temporale di fine estate, il sole non è ancora tramontato e la pelle becca il primo refolo di vento schernendosi. Le serrande e le voci di fronte a casa di nonno, si abbassarono simultaneamente quando arrivammo tutti, scortando l’ambulanza: il corteo funebre più in anticipo della storia.
Mentre guardavo gli infermieri e i medici issare a spalla la lettiga su cui era sistemato nonno su per le scale della casa padronale fino al primo piano, mi pareva di assistere alla proiezione di una pellicola al contrario. Il morto saliva al posto di scendere, ma del resto, dal letto di ospedale dal quale mi aveva parlato come se avessi di nuovo cinque anni, nonno era stato inflessibile. Chiamati a raccolta i figli senzienti, l’oracolo si era così espresso: – Andiamocene; devo morire a casa mia. –
Era evidente che non fu il tono, ma il padre che era, a non ammettere repliche. A zia Angoscia e a mio padre, non fu neppure chiesto il parere. Pertanto, quando la carovana guidata dall’ambulanza giunse sotto casa sua, fu chiaro a chiunque che la cosa era stata ampiamente decisa dal morto in persona, e che lo stesso si sarebbe preso il tempo di mettersi comodo per congedarsi come gli si confaceva.
Nell’androne grande del portone, mi lasciai alle spalle piccoli crocchi di vicini che si raccoglievano spontaneamente, e che mormoravano sommessamente tra loro,- mo se ne va pure signor Michele -.
Al primo piano, fu allestita la stanza da letto grande, quella contigua alla sala da pranzo, dalla quale furono prontamente prelevate le sedie per essere collocate lungo tutti i lati del letto.
La spalliera in metallo su cui campeggiavano compunte e guardinghe due immagini sacre, una maschile per il posto di nonno, e una femminile per quello che era stato il posto di nonna, faceva un rumore terribile di ferraglia, a dispetto dell’imponenza ottocentesca del color marrone dato con ampie e generose pennellate nel verso della lunghezza. Sicché, adagiato con sussiego il nonno, gli fu sistemata accanto l’asta che reggeva il boccione della flebo, mentre noi nipoti fummo precettati a cercare i cuscini che ne avrebbero attutito gli urti e i rumori.
Tutt’intorno, si disposero ad occupare le sedie innanzitutto le donne della famiglia, prima le figlie, persino quella professoressa venuta da Torino col treno della notte, poi le nuore, infine le cugine e le nipoti grandi. Io, a distanza, oltre la seconda fila, oltre i maschi di famiglia rigorosamente in piedi, preposti a sovrintendere da lontano alle manovre dell’infermiere per inserire la nutrizione parenterale. Si procedette tacitamente come fossimo invitati a una cerimonia nuziale e la sposa non fosse ancora arrivata: il chiacchiericcio a bassa voce, le notizie dei cugini al Nord, le filastrocche dei piccoli dell’asilo, lo sguardo che si posava sul nonno solo di taglio e con aria fintamente distratta, come non fosse lui l’atteso intorno al quale ci eravamo radunati.
Eppure, lui era lucido. Si guardava tutt’intorno con quello sguardo azzurro che nessuno di noi aveva ereditato tranne mio cugino Marco, e che io fantasticavo arrivasse direttamente dai Normanni che avevo visto sul mio libro di Storia. Lui, da quel drakkar senza mare che era il suo letto, soppesava tutti, e il suo sguardo dedicava lo stesso tempo a ognuno. Quando ebbe terminato di lasciarci un po’ di quell’azzurro addosso, anche a coloro che non se ne erano resi conto, nonno convenne che era il tempo. Me ne accorsi dalla panchetta su cui ero seduta sulla porta della seconda stanza da letto, guardando nel varco fra il lembo della giacca di zio Tanino e la mano in tasca di Zio Vito. Il rantolo cominciò bruscamente ma sommessamente. Il chiacchiericcio cessò subito. Il nipote medico del nonno, figlio di sua sorella, che tanto gli doveva in termini d’amore e di sostegno economico durante gli studi, guardò brevemente in direzione dei miei zii. Parve un segnale convenuto.
Finalmente il momento di gloria di zia Angoscia era arrivato: come accadde che alla sua invocazione tutte risposero facendo partire una giaculatoria dalla sincronia perfetta persino nello strascicamento delle vocali aperte, è cosa che ancora non mi spiego. Apparvero istantaneamente variopinti rosari fra le dita, come grani di certezze che non ci fosse nemmeno una cosa nella vita da cui non potessero ritenersi al riparo.
Io invece, della morte di nonno che si stava per consumare davanti a noi, temevo soprattutto la reazione di mio padre, e dei suoi temporali dai quali stavolta, pensavo, non avrei trovato riparo.
Per quante ore questa nenia ipnotica abbia accompagnato l’agonia di mio nonno e l’ansia degli astanti, non saprei dirlo. So che a un certo punto, mia madre si avvicinò prendendo posto di lato, alla destra di nonno, e fece per prendergli la mano e accarezzarla. Accadde una cosa che smorzò finalmente persino l’entusiasmo da maestro cerimoniere del rosario di zia Angoscia: nonno, al tocco di mia madre, sollevò bruscamente la mano, allontanando la sua, mentre il rantolo proseguiva pervicace. Ebbi la certezza che era in viaggio, e soprattutto che non voleva essere trattenuto. Dormimmo alternativamente un po’ ovunque e a sprazzi, fino a che all’alba, le preghiere divennero pianto, e il nipote medico staccò l’ago dal braccio di nonno.
Dopo poco, il rantolo terminò. Ho imparato allora l’eterno riposo.
Le mie zie, prima ancora di tirar fuori gli abiti che avrebbe indossato il defunto, tirarono fuori un sospiro di sollievo e corsero a coprire con un telo di lino lo specchio dell’armadio in mogano che troneggiava vezzoso sulla parete a destra, evidentemente in competizione con gli addetti delle pompe funebri che arrivarono subito dopo e che smontarono il letto prima di ricomporre la salma.
Anche noi andammo tutti a ricomporci, ed io personalmente, non so perché lo feci, chiesi a zia Maria cosa sarebbe stato più opportuno indossare: tornai a casa di nonno con un pantalone ed una giacca blu scuro, e una camicia color tabacco con dei microscopici fiorellini in tinta, che verosimilmente non avrei messo mai più, e che mi facevano somigliare più ad uno dei nipoti maschi, piuttosto che a me.
L’euforia che la morte di cotanto ottuagenario scatenò nelle prozie della famiglia e nelle vecchie del circondario, fu incredibile. Sfidarono a frotte le tre rampe di scale che separavano il portone dalla stanza da letto in cui fu allestita la camera ardente, talune in pelliccia, altre in cappotto, altre in grembiule. Quelle in grembiule da cucina non si accomodavano, che dovevano andare a sbrigare le loro cose, mentre le altre prendevano posto salutando gli astanti con un sorriso, mentre già recitavano a mezza bocca un qualche de profundis all’indirizzo di questa salma che giaceva salomonica nel mezzo della stanza.
I maschi della famiglia e le centinaia di uomini che vennero a rendere omaggio a nonno, assumevano tutti una posizione così rigida e impettita che più di una volta credetti stessero per scattare sull’attenti e battere i tacchi per il saluto militare. Nei loro visi, difficilmente vidi una lacrima. Tantomeno in quelli dei fratelli di mio padre, almeno fino a dopo la tumulazione. I tratti scolpiti e bruniti dal sole nei campi di zio Tanino erano sufficienti per il dolore di ognuno, e bastava guardare lui per dover abbassare la testa.
Speravo che qualcuno rompesse il silenzio e le righe per dirmi qualcosa; una spiegazione da capire, una bugia in cui credere, un fazzoletto da ripiegare. Eppure sentivo, e temevo, che quell’ordine di carta e di tonico alle rose che mi circondava non sarebbe durato.
Le crepe si allargarono solo al calar delle tenebre.
La trasfigurazione dei membri della famiglia di mio padre avvenne in ordine inverso per età. Nella stanza da letto attigua a quella del morto, dove erano state sistemate anche delle brandine di fortuna per chi avesse avuto bisogno di riposare un momento durante la veglia funebre, la figlia più piccola, zia Maria, prima prese un ansiolitico versandosi direttamente in bocca delle gocce, e poi cacciò uno scorreggio colossale, a dispetto dell’accento finto piemontese e dei guanti in pizzo nero che portava, e che portò poi per tutti i funerali che avemmo in comune.
Zia Angoscia, la penultima, centuplicò le note della sua vocazione mistica, orchestrando le funzioni dal vespro al mattutino con un accaloramento che sfiorava l’estasi di santa Teresa, evidentemente trovando un senso al suo essere tornata la zitella di casa dopo sterile e scombinato matrimonio.
I fratelli di mio padre, prima zio Vito, che era il terzo, poi zio Tanino, che era il secondo, e infine, papà, finalmente si sedettero. L’impianto iniziava a scricchiolare. Vidi con apprensione mio padre tenersi la fronte con le mani, ma durò solo qualche attimo.
Del funerale al mattino, dopo essere scesa non so più quante volte a ritirare telegrammi e biglietti, in realtà ricordo poco. Tanta gente, tantissima, i cugini muratori di papà, tre, tutti uguali, con la coppola ripiegata in mano. Zio Vito, che rimase fuori dalla chiesa per tutto il tempo. Mio fratello, che si ferma come subitamente congelato davanti al manifesto funebre che porta il suo nome, l’eredità anagrafica, pesante anch’essa, del nonno.
La metamorfosi si completò all’ora di pranzo; anzi a dir la verità nel primissimo pomeriggio. Tornati tutti a casa di nonno dopo il funerale e la tumulazione, zia Concetta si apprestò ad aprire le finestre che qualcuno aveva chiuso andando via. Una farfalla bianca, piccolissima, mi passò davanti per uscire alla luce che si spalancava sulla stanza da letto dov’era stato fino a poco prima il defunto. Zia mi guardò e sorrise annuendo a chissà quale pensiero avesse nella testa.
Subito dopo, la cerimonia ebbe inizio. Vuotata la stanza dai paramenti sacri, dai fiori, dai biglietti, dai telegrammi, dai panni sugli specchi, guardavo gli adulti di casa come api impazzite spingere l’enorme tavolo buono della stanza da pranzo, seguito da quello su cui mio padre aveva cucito da ragazzo, esattamente nel punto in cui fino a poche ore prima campeggiava il feretro del nonno. Zio Vito osò persino togliere il sant’Antonio nella campana di vetro che troneggiava sul trumeau, con sommo sdegno della badessa facente funzione della sorella Angoscia.
Quando suonarono al portone il nipote medico e suo fratello, capii dalla loro espressione che stava iniziando una festa; li seguiva un curioso e rinnovato corteo funebre: quattro ragazzi con pantalone scuro e livrea bianca, stavano trasportando su per le scale, a spalla, una enorme e lunga cassa marrone. Credevo ci avessero riportato il morto.
Invece, arrivati in quella che era diventata la sala da pranzo, i quattro che compresi essere dei camerieri, apparecchiarono la tavola con tovaglie pregiate, posate che credo fossero d’argento, bicchieri e piatti bordati di fregi e disegni preziosi. Seguirono altre tre casse più piccole, da cui furono tirate fuori eleganti zuppiere in porcellana, e altre stoviglie meno importanti. Non ho mai mangiato un brodo coi cappelletti più buono.
Intorno al tavolo piccolo, ci disponemmo noi nipoti, su sedie più o meno di fortuna. Intorno al tavolo dei grandi, le sedie migliori.
Dalla mia postazione da dove guardinga lo sorvegliavo, intuendo negli sguardi asciutti di mio fratello lo stesso sottile terrore, assistei a un miracolo: mio padre, il primo figlio venuto male, la preoccupazione dei fratelli, la vergogna delle sorelle, il temporale di famiglia, prese posto a capotavola e si alzò, così, in piedi, con un bicchiere in mano. Tremavamo tutti, temendo che urlasse, lo scagliasse via, lo frantumasse fra le mani come altre volte gli avevo visto fare.
Invece papà, con la sua sgradevole voce cavernosa e gutturale, con la sua grammatica sbilenca, ma con un tono che fu comprensibile persino ai camerieri, parlò, e disse, alzando il bicchiere: mio papà, grazie! Viva!
Papà ci aveva liberati. Nonno ci aveva liberati.
Seguirono molte lacrime, molte risate, molte portate.
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