24 Giu “Due gocce d’acqua”, di Nuvola Rinaldi #dopolavoroletterario n. 61
Ho conosciuto Nuvola perché Nuvola vuole raccontare la sua storia ma ancora, lei dice, “non ho capito qual è”. Ogni volta che Nuvola non capisce qual è la sua storia, la scrive benissimo. Come in questo esercizio, nato da una suggestione sensoriale del passato che Nuvola ha scoperto. Trovo che ci sia una pulizia di sguardo dentro questa scena che la rende autonoma dal resto della storia, da chi l’ha scritta e vicina invece a chi la legge. “Una storia tutta per sé” ha fatto centro: per scrivere id sé bisogna dire la verità mentendo. Buona lettura!
La foto è dell’autrice.
(Il laboratorio riprende a settembre con Benbow, leggi qui per scoprire di cosa si tratta e come iscriverti: Una storia tutta per sé.)
Due gocce d’acqua
di Nuvola Rinaldi
Nel mio piccolo rito del mattino mi piace versare dell’acqua nella tazza dove ho preso il cappuccino e poi berla. Mentre sorseggio la mia bibita beige, ti guardo attraverso i vetri del terrazzo. Io sono fuori tu dentro. E mi dà ai nervi quel movimento ritmico del gomito, che fa su e giù con lo strofinaccio per asciugare ogni minima goccia d’acqua rimasta sul top della cucina o nel lavandino. “È un materiale poroso, se non faccio così rimangono le macchie”, mi hai detto. Avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, a mai finire. Una masturbazione senza gioia.
Qui sul terrazzo il sole sta spuntando e riversa vernice brillante su tutti i palazzi. È lunedì e la coppia di anziani che abita proprio dall’altro lato della strada apre le imposte perché il lunedì è il giorno delle pulizie. Vedo la luce spingere per tentare di forzare quelle persiane, folla di fotoni che si accalca ai cancelli dello stadio per poi riversarsi nel buio dopo tanto attendere, come per le partite.
È uscita la ragazza in grembiule e col piumino spolvera. Non si accanisce, lei spolvera.
Qui dove abiti tu e io vengo spesso a dormire, tutto è ordinato. Gli oggetti, gli spazi, le carte. Non ti ho mai detto quanto detesti questo ordine. È un velo mortifero che mi si appiccica addosso e mi inchioda al rigore militare della perfezione, della non esistenza. Io ho bisogno di tracce: molliche di panini mangiati al volo, creme idratanti senza tappo, tazzine da caffè come punti di riferimento mappali. Prove d’essere. Tracce di me e di noi. Tu passi lo straccio e cancelli. Anche se apro il rubinetto solo per sciacquarmi le mani. O per lavare il cucchiaino dello zucchero. “Rimangono le gocce d’acqua”, dici “Si macchia”. Non faccio a tempo a poggiare la tazzina sul tavolo che in un gioco di prestigio sparisce e tu sei lì che la sciacqui.
Fermati, stai un attimo con me. Guardiamoci negli occhi. Ho un barattolo di luce brillante per noi due. Le cose belle macchiano. Le cose belle sporcano.
Mi alzo e mi avvicino ai vetri per guardare dentro, asciughi ancora. Provo a picchiettare con le dita per attirare la tua attenzione, ma lo faccio troppo piano. Non senti e non insisto perché altrimenti comincia una delle nostre interminabili discussioni. Tu che mi dici che non sono mai contenta e che evidentemente non mi va bene uno come te, che tu mi ami ma sembra che non sia sufficiente; io che ti dico che l’amore non basta, che non capisci cosa mi fa stare bene e che quegli automatismi assomigliano più a delle perversioni che ad atti di cura.
Il lui della coppia anziana si affaccia un momento. Pochi capelli pettinati all’indietro e una vestaglia d’altri tempi. Si vede solo questo, da qui. Mi ricorda mio nonno paterno, anche lui aveva capelli lunghi all’indietro e un nasone tondo. Ho una foto minuscola sul frigo dove io piccola in braccio a lui e accigliata come sempre, mi tengo al suo naso, sicura in quell’appiglio. All’altro balcone esce la moglie, ognuno guarda davanti a sé e mi pare che mi vedano. Accenno un saluto, ma non faccio in tempo perché hanno preso a sorridersi. Ora si guardano e la lei in un vezzo di gioventù si ravvia i capelli. Dovrebbe essere così, semplice, tutto sommato. L’amore dovrebbe andare liscio e non incespicare ad ogni singolo passo. Ad ogni maledettissimo singolo passo.
Mi giro di nuovo verso la cucina. E incespico persino nel pensiero. Mi avevi detto che sarebbe stata nostra, la cucina, la casa, la vita. Eppure, quando siamo andati a sceglierla con la mia amica che conosceva i tizi del negozio, hai parlato più con lei che con me. Sembrava doveste vivere assieme voi due. Te l’ho chiesto scherzando quando siamo usciti. Ma vai a vivere con Roberta o con me? Perché era tutto un “A me fa comodo avere degli spazi per le pentole in basso piuttosto che in alto”. “Sì, anche io preferisco”. “Le mensole a giorno?” “Mmm… meglio qualche pensile. In effetti meglio”. “E il colore? Verde muschio?” Io non ho detto una sola parola e tu non mi hai mai chiesto cosa ne pensassi.
Avrei preferito essere gelosa e basta, in realtà non avevo capito che non volevi vivere con nessuna delle due.
Hai finito col lavello, lo guardi soddisfatto e con le brache del pigiama un po’ calate vieni fuori a fumare una sigaretta. Sei appagato. Se avessi per noi o anche solo per te stesso la cura che hai per il top della cucina rischieremmo di essere felici. Mi guardi e mi sorpassi con lo sguardo e coi rivoli di fumo, mi attraversi, perché il tuo pensiero è sempre da un’altra parte, probabilmente torna alla cucina o magari al fatto che non facciamo quasi mai l’amore. Hai ragione, è triste anche per me. Eppure, discutiamo anche su questo. Ed è inutile che provi a farti capire che se di prima mattina cominci con le tue gocce d’acqua, poi sgrani il rosario delle cose scoccianti della tua giornata, alzi gli occhi al cielo se dal tuo studio ti mandano un messaggio per chiederti un’informazione, poi mi parli dei problemi dei tuoi figli, poi ti guardi la pancia e dici “che schifo, devo dimagrire”, poi dici quanto i tuoi colleghi siano degli incompetenti, l’amministratore un lestofante, la tua ex moglie non considera i sacrifici che fai e così via; a me passa la voglia di vivere, figuriamoci quella di scopare. Ormai non te lo dico più, ormai non me lo chiedi più.
Finisci di fumare, svuoti immediatamente il posacenere e mi chiedi “hai bisogno del bagno?”, “no no vai pure”. E inciampo di nuovo, perché di bagni a casa tua che doveva essere nostra ce ne sono due, ma l’altro è dei tuoi figli e non si tocca. Potrebbero percepire tracce del passaggio di un estraneo che viola il loro sacro spazio.
Ti lascio un quarto d’ora di intimità, poi busso perché so che hai finito e io devo fare pipì. Mi siedo e ti guardo mentre lavi i denti. “Sai, ho visto i due del palazzo di fronte, oggi si sono affacciati”. “Ah”. “Li ho salutati ma non mi hanno visto. Sono teneri”.
Sputi un paio di volte nel lavandino; io mi asciugo mentre tu sciacqui via la schiuma. Tiro l’acqua e ti vengo vicina, mi piazzo fianco a fianco senza fare niente, ti vorrei ritrovare lì in quella striscia calda della nostra pelle che si tocca. Vorrei sentire scorrere qualche particella di passione, ma è a questo punto che pieghi un braccio e chiudi la manopola del rubinetto con un gomito perché potresti avere le mani bagnate e macchiarla d’acqua o lasciarci le ditate. Chiudo un attimo gli occhi, lo vedi dallo specchio, ti bacio sulla guancia e vado a vestirmi.
Prendo zaino e chiavi, ti grido “Ciao” da dietro la porta ed esco.
Sotto mi aspetta la bici, legata a un palo. La slego e sollevando lo sguardo mi accorgo che i due anziani si sono affacciati di nuovo. Sono insieme allo stesso davanzale adesso, i gomiti uniti, le dita delle mani intrecciate. Li saluto di nuovo e stavolta rispondono sollevando appena la mano rimasta libera.
Ci sono degli alberi sul viale, è primavera inoltrata e sono pieni di foglie. Il giornalaio sta aprendo e dal bar sotto casa esce un profumo di dolci e brioches che mette di buon umore. Il portiere del palazzo esce a fare il suo turno di guardia. Guardo in su verso il tuo terrazzo spoglio e mi si chiude lo stomaco, poi spingo sul pedale, scendo con un saltello dal marciapiede e prendo il viale alberato in direzione di qualunque altro posto.
Non ho ancora capito quale sia il segreto dell’amore e forse non c’è da capire perché non c’è nessun segreto; pedalo verso casa, o forse verso il mare, e la luce brillante si riversa anche su di me.
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