13 Nov La vita inedita di una scrittrice #37
Una volta ho letto un racconto, ero appena uscita dall’università, il racconto si intitola Circe e quando finisce c’è una postilla dell’autore che spiega che per essere rivoluzionari non basta fare la rivoluzione ma essere la rivoluzione.
Il mio cavallo di battaglia era l’amore. Il tabacco e le cartine, le giacche di velluto a coste, la Moleskine, Tom Waits, le montature degli occhiali colorate di tutte le forme, il cinema di Kaurismaki e la televisione di Ciprì e Maresco, il teatro civile, le calze a righe e le scarpe con i tacchetti allacciate, le camice lise e le coppole irlandesi, il Manifesto, Jules che faceva capolino a Jim, i silenzi posturali e l’ingordigia emotiva, dozzine di one shot e le coperte di cachemire, il viola e la tisana corretta, l’easy living e l’hard loving, i caffè d’arte e l’arte da caffè, le liane di velluto per ragazze perbene e la cioccolata al ginseng contro i liberi radicali, il ballo di San Vito e San Vito che non si faceva mai vivo, e i bagni turchi, bagni knapp, bagni di lacrime, tisane rinvigorenti, lacrime di Negroni, massaggi ai piedi, pomelli dorati, ostriche scongelate, pigiami di seta, pancetta fritta, saponi con l’aloe vera, orgasmi gnoseologici, mughetti, citronelle, discorsi con il retro-odore di tanfo annerito. I nostri cavalli di battaglia. Tutto se ne era andato, andato dove.
Sul piccolo frigo nella minuscola cucina incassata all’ingresso del monolocale dove abitavo, a due passi da piazza San Carlo, a Torino, in una mansarda che un tempo doveva essere stata l’alcova di una Lady capricciosa e del suo stalliere, ciondolava la bocca della verità. Avevamo comprato quel magnete, io e Jonsi, a Roma durante lo sciopero generale dello spettacolo. Che in Italia non c’era proprio mai niente da applaudire. Non lo eravamo diventati, né artisti né attori, ma questo non significava che non avessimo la sensibilità che alleva le cause perse. In mezzo alle migliaia di persone in corteo, tutti della stessa età e con la stessa pashmina nera al collo, facemmo amicizia con una coppia di indio, Jonsi diceva che erano peruviani. Gli indio (o i peruviani) avevano un baracchino mobile stracolmo di souvenir dove Jonsi mi comprò il magnete raffigurante la bocca della verità perché davanti alla vera bocca della verità c’era una fila di agguerrite macchine fotografiche giapponesi che non ci facevano passare nemmeno quando mi ero inventata che Jonsi era malato e quella sarebbe stata l’unica occasione per entrambi di mettere la mano sul fuoco della nostra storia, nella bocca dell’eleganza. Così, passammo al baracchino e lui mi comprò quel magnete e ogni volta che dormiva da me, giurava, con la mano destra sul magnete, che non sarebbe stata l’ultima volta. Il minifrigo era sempre vuoto come una coscienza, lo tenevo in casa solo per rivedere, ogni sera, Jonsi smentire se stesso davanti alla Bocca della Verità taroccata.
Jonsi quando mentiva era sincero.
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