18 Ott “LA PRECARIA DALLA PIPA IN BOCCA” di Michele Scaranello #dopolavoroletterario 8
Ho conosciuto Michele molti anni, in uno dei miei primi corsi di scrittura baresi. Da allora ci siamo rivisti in altre occasioni e ho avuto modo di leggere le sue storie curandone l’evoluzione e ammirando profondamente un vizio di forma di questo scrittore: la caparbietà. Caparbio, come la protagonista di questo suo racconto che sembra nascere, con la dovuta reverenza, da un’anca di una nota signora letteraria col cagnolino.
(Immagine: ritratto di Cesarina Gualino di Felice Casorati)
LA PRECARIA DALLA PIPA IN BOCCA
di Michele Scaranello
Tutti mi chiamano Gildalarossa per via dei lunghi capelli cotonati che mi fanno somigliare a Rita Hayworth. Tutti, tranne i bambini cui ho insegnato. Per loro rimarrò la Maestra Flavia. Chissà se insegnerò ancora quest’anno. Magari a singhiozzo, come finora mi è capitato.
Se tutto andrà bene ricomincerò da una nuova scuola, da una nuova classe, dovrò ambientarmi a nuove facce. È una gradita condanna che si rinnova ogni momento , come il guardaroba di una modella .
Il supplizio per una maledetta cattedra è iniziato a fine estate. Anche quest’anno, divorata dalla spasmodica attesa di una mail, di un SMS o di una telefonata, ho sbirciato in continuazione il cellulare con la tensione catalizzante di un ragazzino che gioca al videogames preferito. Ho invocato santi e madonne, ho odiato i minuti, le ore, le giornate, tutte sfumate in un’attesa balorda e asfissiante. Da tempo, il mio freezer congela solo speranze, le ultime di un futuro migliore. Di cibo, poche tracce: il frigo, a metà settembre, l’hanno svuotato la crisi e la mia angoscia compulsiva.
Senza certezze siamo stati convocati in venti. Giubilo: ci siamo presentati in dodici. Non siamo all’ultima cena: nessun collega rinnegherà la sofferenza dell’altro e non ci saranno baci e abbracci di rito. Assistiamo impotenti alla croce delle nomination.
Alla fine dell’estate, l’ho saputo. Ce l’ho fatta. Insegnerò a Nichelino. Si ricomincia. Potrò comprare un nuovo foulard per arricchire di nuove fantasie l’impermeabile beige, ormai sbiadito da pioggia e detersivi selvaggi; potrò acquistare un barattolo di crema gianduia da spalmare sul pane. Acquisterò incensi orientali per nascondere l’umidità sfrenata che tappezza i muri corrosi e i tendaggi ammuffiti. E se riesco a risparmiare, prima di Natale potrò permettermi una pipa nuova
Durante le lezioni, anche nelle pause, resisto alla tentazione di armeggiare con la pipa. Preferisco aspettare e farlo in santa pace. Per me non è mai stato un dramma attendere e resistere. Anzi resistere e attendere. È una vita che lo faccio.
«Un’insegnante deve dare l’esempio! Un bell’esempio!» mi urlò la preside, questa volta assumendo un’espressione trasognata, molto più simile a una giovenca podolica. Il suo smascellare il chewing-gum m’innervosiva ed era altrettanto insopportabile e deplorevole. Eppure, da insegnante di Storia e Educazione Civica, dovrei insegnare ai ragazzi che la nostra costituzione non ammette pregiudizi per sesso, religione, cultura o capricci epocali. Ogni uomo, ogni donna di questa terra merita libertà e dignità per il solo fatto che esistono. Qualcuno sa dirmi perché un gesto che non lede nessuno dev’essere considerato così riprovevole? Perché questi insegnamenti valgono solo per i miei alunni?
Io fumo la pipa e me ne frego.. L’odore del tabacco satura le mie narici e mi riporta al bar che frequentavo da ragazza, ai suoi tavolini d’alluminio dove tutti fumavano indisturbati. In quel bar lavorava nonno Andrea: lui ora è in pensione. È l’unico a non incazzarsi per quel vezzo che mi ha tramandato. Lui era, anzi, è dolce e comprensivo. Quand’è morta la nonna mi ha regalato le vecchie pentole in rame e il suo lettone matrimoniale in ferro battuto. Gli metteva tristezza addormentarsi senza la compagna di una vita. Capisco la sua malinconia, ora che non condivido più con alcuno la gioia di abbandonarmi ai miei sogni.
Se faccio l’insegnante, lo devo al nonno. Lui mi ripeteva sempre: “Finché esisteranno buoni maestri, finché i giovani avranno coraggio, il mondo avrà un futuro”. Io l’avevo preso in parola, ma il mio coraggio all’epoca funzionava a corrente alternata, anzi rallentata, o forse ero vittima di un corto circuito.
Come ogni giorno ho attraversato la stazione di Porta Nuova, violata più dal rullare dei trolley che dalla corsa dei pendolari. È il momento ideale per dare respiro alla mia pipa. Ogni boccata, ogni passo mi avrebbe riconciliato con il mondo, con la mia libertà. Sul cielo terso, ottobrino, poche nuvole stratificate si dilatano come arcate di sabbia ambrata. Dopo una settimana di nebbia, non c’è più traccia della saliva fuligginosa, insipida, che corrode e ingoia ogni oggetto dopo averlo ammantato nella sua coltre impalpabile. Presso il tabacco con uno stoppino e accendo la pipa con la solennità di un evento importante. Insieme al fumo acre e fruttato del tabacco m’invadono le immagini e i suoni della metropoli. Mi accomodo il basco e mi muovo sospinta dalle prime vaporate. Posso anche disperdermi. M’inebrio e godo in mezzo agli occhi incuriositi che si scatenano attorno a me.
«Piccola mia, per ogni scelta, per ogni desiderio, come per ogni condanna, c’è sempre un prezzo da pagare…»
Le parole mi frustano, quasi fossero una sentenza inappellabile. Il silenzio avvolge il ricordo della sua voce. Poi arriva lo stritolio dei tram, la musichetta metallica e demenziale di un cagnolino cinese mi riporta alla realtà. L’imbrunire è ormai complice dei bagliori alonati che inseguono l’orizzonte: scorrono e s’infrangono su finestre e vetrate. Un groviglio di riflessi digitali illumina l’oscurità, si sovrappone ai led delle automobili e incrocia la scia alternata di un semaforo. Pozzanghere insulse e oleose trattengono e cullano reflui di una civiltà mancata. Seguo i miei passi incerti: strascicano, cadenzati. Fra le mani mi resta solo questo piccolo vizio senza colpa, me stessa.
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